Zenite – Vol. 19, n. 3; 2012
Come un sordo muto che prova ad esprimersi, l’uomo senza mani avanza ad ogni passo fermo e risoluto. Solare, lunare, incombe, sostiene, domina e genera mai definitivamente contrapposti.
Gioielli della letteratura zen, Shin Jin Mei, Shōdōka, Sandōkai e Hōkyōzanmai ne costituiscono anche la più genuina originalità. “Forte, della sapienza la spada impugna, fiammante vajra, da vie guaste distoglie e gli assalti di Mara respinge”: è così che inizia la seconda metà dello Shōdōka – il Canto dell’immediato Satori, poema in versi di Yōka Daishi (665-713) – mettendo in luce la parte marziale, dopo quella lunare, saturnina, in ombra, quasi melanconica della prima parte: “Diletto amico mio caro, non vedi quell’uomo della via serena che al saper, all’agir più non s’affida?”.
“Nessuna prosa potrà mai esprimere la risonanza della sottile musica emessa dalla poesia anche di un solo verso che risveglia”, commentava Sawaki Rōshi. E quelli dello Shōdōka sono versi sottili e affilati che letti ad alta voce suonano forti e chiari. Una chiarezza e una forza che, nel canto o nella recitazione cantillata, toccano le vette del sentimento religioso, dove il poema prende vita propria. Trascende la personalità del suo autore, diventando opera di ere e nazioni che riguarda tutti e ciascuno. Non esistono mai divisioni nette… l’una parte ricorre nell’altra continuamente, puer aeternus, eternamente fanciullini. E dall’antica terra, arata di fresco, di questi nostri dolci colli, dagli Etruschi veniva tratto Tagete, dio bambino dalle candide chiome, maestro e fanciullo, a ricordarci che i maestri nascono vecchi.
E verso la fine del Canto: “si spenga il sole, la luna s’incendi, di Mara le armate mai la vera dottrina potranno insidiare”. La logica disgiuntiva dell’io, spiega Hillman, è incapace delle connessioni offerte dall’anima attraverso il sentimento o il mito. Tanti aspetti o facce, simultaneamente, ci fanno avvertiti: Buddha e Demonio, lunare e solare, luce e ombra, estrinseco e latente. Ma è di un’attività segreta, intima, continuità discreta che si tratta e che fa dire a Dōgen Zenji nel fascicolo Gyōji: “Il sole, la luna, le stelle esistono in virtù della creatività; la terra e il cielo sereno esistono a causa di tale attività creatrice, gyōji. Il nostro corpo, la nostra mente e il loro ambiente nascono da tale attività… ma tale attività non si origina, non dipende da nulla, non s’origina dipendentemente (…) La Via chiamata gyōji, non precede tale attività, è attività realizzata, genjō”.
In altre parole, possiamo immaginare di sedere con tutto noi stessi fintanto che sarà evidente che tutto intorno a noi non fa altro che sedere, sedendo e basta; accuratamente persistendo nell’attività fino a che viottoli, staccionate, recinti e siepi si prendano cura del nostro sforzo. Che il potente suono di un tamburo battuto ad arte impressioni tutti, non vuol dire che tutti lo intendano come la voce del Buddha. Ma quelle pelli tese da abili mani parlano sempre quella voce che inarca le reni e sorprende come l’imprevedibile rimbalzo d’una palla calciata contro un muro. Quella voce esalta lo scontro, la fiera contesa d’alteri draghi ed elefanti, il santo, regale, incorruttibile contendere di fratelli e sorelle... limpida, chiara, dolce, inarrestabile comunione dei figli del fuoco che siedono fermi nell’arroventata atmosfera del dōjō.
Anche la religione come un volto che guarda in uno specchio senza riflesso, domanda tecné, arte… E l’arte l’affianca, tecnica divina, kami waza. Le liturgie religiose s’impongono, ;opere d’arte viventi di fronte a Dio, Buddha, ma anche l’arte più raffinata può restare impedita da un nulla, uno scopo, un impercettibile motivo. Perdere le mani per il pittore, lo scultore, le orecchie per il musicista, la vista per il veggente…la ricerca del sublime non basta quando non sa accogliere la grazia che viene dal cielo, quel che si dona sempre e comunque, dallo spirito che come nube di compassione lascia cadere pioggia su tutti, pii ed empi, virtuosi e peccatori… E così, tra lo stupito e l’assorto, Leonora nel Trovatore di Verdi canta: “Rapito il cor sorpreso! Sei tu dal ciel disceso. O in ciel son io con te”.