da “Reporter Milano – Parma”
“With the drawing of this Love and the voice of this Calling
We shall not cease from exploration
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started
And know the place for the first time.
Through the unknown, remembered gate
When the last of earth left to discover
Is that which was the beginning”.
“Con la forza di questo Amore e la voce di questo Appello:
Non cesseremo di esplorare
E alla fine dell’esplorazione
Saremo al punto di partenza
Sapremo il luogo per la prima volta.
Per il cancello ignoto e noto
Quando l’ultima terra sconosciuta
È quella del nostro principio”.
Lo Zen non esiste, o meglio era un marchio per un pubblico di consumatori che sta scomparendo. Un amico di un amico, di cui si sono perse le tracce, pare abbia detto: “Lo Zen italiano andrebbe schiacciato sotto i cingoli di un carrarmato”.
Ma per quel che ci riguarda, tutto incominciò con un giovane che s’era messo allo Jūdō e, nel pieno dell’inquietudine della sua ricerca, incontrò un sacerdote cattolico, Don Lino: “Ma Cristo aveva un metodo?”, domandò quel giovane. “No, Gesù mangiava, beveva, urinava come tutti e aveva compagnie spesso discutibili” rispose il prete. Il giovane se ne andò scontento della risposta, ma profondamente scosso dall’incontro.
La sua inquietudine si andava amplificando, il senso di quella risposta mancata approfondendo e grazie ad alcuni amici coetanei s’imbattè ne Lo Zen di Alan Watts, uno dei pochi libri divulgativi sull’argomento allora reperibili in Italia. Quel libro aveva una postfazione di Umberto Eco. Al giovane non piacque e ne trovò conferma di lì a poco quando, all’indomani del suo primo titolo nazionale di Jūdō, fece l’incontro della sua vita, Taisen Deshimaru Rōshi (1914-1982), a sua volta improbabile discepolo di un noto protagonista della scena del Buddhismo giapponese, Kōdō Sawaki Rōshi (1880-1965). Soprannominato Kōdō senza tetto, con la sua vita aveva, per certi aspetti, contribuito a vivificare la tradizione dello Zen Sōtō di buona parte della prima metà del ’900.
L’insegnamento di Taisen Deshimaru era schietto, diretto e difficile nella sua enigmatica semplicità: “Lo Zen è zazen. Zazen è Satori e Satori è il ritorno alle condizioni normali del corpo e della mente! Oltre sacro e profano lo zazen non è nient’altro che la postura del Buddha… Zazen è la vostra croce…”. Per quel giovane le parole del Maestro Zen non erano meno inquietanti della riposta del sacerdote cattolico, ma lo stavano aiutando a considerarla da una nuova prospettiva.
Ad anni di distanza la questione delle “condizioni normali del corpo e della mente” avrebbe preso per lui un tale respiro da rivelarsi come una sintesi aperta sui problemi più profondi sollevati dalla fenomenologia, dall’epistemologia, dall’ermeneutica contemporanee. Problemi che aveva già sollevato lo Yogācāra, quella grande corrente del Veicolo Maggiore fondato da Asanga (395-470 ca.) nel IV secolo.
Anche se non del tutto estranei agli archetipi della psicologia junghiana e senza limitarsi ad una categoria con cui si classificano i fenomeni psicologici, come viene ripensato da alcuni interpreti contemporanei, gli archetipi per la scuola Yogācāra – corrente di cui lo Zen è ampiamente debitore – vanno intesi come il percorso attraverso cui l’uomo ritorna continuamente alle proprie origini e va verso il proprio futuro, il sentiero che mette in comunicazione l’anima con lo spirito e viceversa, il passaggio attraverso cui lo Spirito fa la sua comparsa nel mondo fenomenico.
Non c’è un solo libro sacro né un solo mito che non passi attraverso gli archetipi. Non solo, ogni narrazione religiosa è stata rivelata attraverso gli archetipi, ma di fatto solo passando attraverso di essi si può accedere alla realtà trascendente. Ogni scrittura sacra nasce e s’origina da quegli archetipi, nella profondità, origine delle origini, di quell’ālaya vijñāna che è il fondo della coscienza nella scuola Yogācāra, la sua lingua e parola.
La coscienza ālaya o coscienza deposito non si riduce ad una specie di deposito o inconscio collettivo. Vuoto d’essere di ogni essere è il luogo in cui nasce ogni senso. Meditare o medicare diventa allora il percorso di quello scrittore che precede, che avanza retrocedendo, che vede di prima mano la vera lingua della coscienza ālaya e la descrive con parole proprie, sue, ma non di sua proprietà.
La scomparsa prematura di Taisen Deshimaru spinse quel giovane, ormai adulto e incoraggiato dal suo secondo insegnante, a cui succedette nella Tradizione Sōtō Zen, ad aprire nell’84 una nuova missione nella sua città natale. Tempio dell’altrove nell’altrove del tempo, Fudenji si propone come sede seminariale permanente, croce-via tra Occidente e Oriente, tra sacro e profano, centro di spiritualità, cultura e formazione, aperto al dialogo ed al confronto interreligioso e interculturale a livello locale, nazionale e internazionale che negli anni ha prodotto una ricca rete di relazioni in ambito istituzionale, accademico e interconfessionale.
Il primo ottobre 2009 è stato riconosciuto, dalla Sōtōshū Shumuchō, Tempio Ufficiale a Statuto Speciale (Sōtōshū Tokubetsu jiin).
L’Istituto Italiano Zen Sōtō Shōbōzan Fudenji è stato riconosciuto come Ente di culto con D.P.R. in data 5.7.1999 (G.U. 23.9.1999) e aderisce all’Unione Buddhista Italiana (U.B.I.).