Un dolce di riso dipinto non soddisfa la fame...
Là dove c’è un maestro, anche un anonimo, c’è sempre qualcuno che si dispone con poca o tanta deferenza, classe o stile, a rendergli omaggio, magari andando a piedi… sobbarcandosi anche un gravoso spostamento e mai voltandogli le spalle.
Accade al maestro Zen – i piedi ben piantati per terra – di tracciare nell’aria, o a volte col pennello e l’inchiostro, un cerchio… non un cerchio perfetto, che nemmeno il più sofisticato dei compassi potrebbe disegnare, ma una circonferenza totale. Accanto a questo cerchio, a volte, si preme di calligrafare: “In un mondo di totale cambiamento, nulla cambia”. Oppure: “In verità, nella totalità cosmica, non altri, non me”. O anche: “Un bel chiaro di luna, un vento puro appaiono impossibili da dipingere o imitare”.
“Un dolce di riso dipinto non soddisfa la fame”. Una serie di negazione? No, solo un’unica, assoluta totalità, dove tutto accade senza mai nascere né morire. Questo “non soddisfa” fa del “dolce di riso” tutto quel che di bene può farsi. Tutto quel male diventa evitare e fa del male una vittima.
L’uomo nelle sue lunghe, inevitabili, tribolate narrazioni arriva perfino a ereditare compiti che per un certo periodo erano affidati solo al Dio Onnipotente. Anche la tecnica arriva a perdere la fantasia e l’immaginazione dell’arte scambiandosi con l’onnipotenza divina. Facevo notare al professore che chi s’avvicinava allo Zen mi pareva rifiutasse altro… “Mi pare che assomigli alla negazione – mi rispose – che comporta credere che le cose diventino altro da quello che sono fino a quell’estremo che è il nulla”.
“La questione del nulla sta al centro del pensiero filosofico – scrive Tarca in risposta ad Alfonso Berardinelli2 – e dal modo in cui si tratta questo problema dipende in qualche misura tutto il resto; (…) ogni volta è sempre in gioco il tutto, ogni singola ‘mossa’ filosofica chiama sempre in causa l’intero orizzonte, e conferisce quindi un nuovo significato anche a problemi ‘già risolti’. (..) L’andare in pezzi della lampada non significa il cadere nel nulla della lampada intera; ma nel senso non nichilistico la lampada va davvero in pezzi!
Del resto, anche Dōgen3, uno dei vertici della sapienza buddhista, già nel tredicesimo secolo insegnava che non si deve pensare che la legna diventi cenere o che la primavera diventi estate (...)”. Così come anche il più piccolo moscerino che va a sbattere contro il parabrezza mantiene intatta la sua dignità, per Dōgen Zenji anche i resti consistono in uno status dharmico che ha un prima e un dopo, ma che non diventa altro da sé. Pensare ai pezzi in cui è andata la lampada… evitare di calpestarli per paura di ferirsi, domanda un pensare che rifiuta o che fa sorgere dal nulla.
Questa particolare visione del Prof. Tarca, questa interpretazione di quel non divenire degli eterni, di matrice severiniana, tanto si avvicina alla nozione di posizione dharmica come la si ritrova in Dōgen Zenji. Quest’orientamento laborioso e appassionato sembra dunque necessario per capire il Buddha-Dharma, per cogliere quell’inafferrabile totalità e soprattutto per saper tenere nella debita considerazione il quadro di precomprensioni categoriali in cui siamo immersi e di cui non possiamo fare a meno.
Là dove c’è un maestro, anche un anonimo, c’è sempre qualcuno che si dispone con poca o tanta deferenza, classe o stile, a rendergli omaggio, magari andando a piedi… sobbarcandosi anche un gravoso spostamento e mai voltandogli le spalle. È così che si andava di monastero in monastero, attraverso valli e montagne in quello che è diventato henzan, il peregrinare alla ricerca dell’incontro.
E un giorno il Prof. Tarca, con alcuni allievi, venne a visitarci a Fudenji dove “si è costretti a sedere per terra”, luogo che domanda una postura filosofica, tempio dell’altrove nell’altrove del tempo. Parlammo di maestri e allievi.
Succedere al proprio maestro non significa diventarne il succedaneo e propriamente non racchiude in sé nessuna idea di astratta perfezione. La sintonia tra un maestro e un discepolo muove al rinnovamento generato da un’affinità straordinaria non scevra però da contraddizioni e tensioni, che li in-tre-ccia per sempre e di cui nessuno avrà mai il monopolio.
Non maestro né allievo, quindi, ma solo novità comune, imbattersi diretto e personale dal mio al tuo cuore, i shin den shin. La tradizione Zen parla di novità che nasce dalla perfetta compenetrazione, fusione, tra l’uno e l’altro, quella grazia intervenuta tra maestro e allievo, di cui qualcuno potrebbe accorgersi. Allora, attraverso questa grazia, si crea un legame imperituro, continuo. Quindi non esiste un primato in chi succede. Il meglio è nella novità antica e nella prossimità remota. Non c’è una dimensione morale evidente che segna quella tradizione, ma è una storia d’amore, l’affinità totale tra due persone che sono imperfette.
È l’imperfezione della perfezione, o la perfezione dell’imperfezione, come nel famoso kōan dell’oca che cresce in una bottiglia. L’oca cresce: come farla uscire senza ucciderla e senza rompere la bottiglia? Com’è possibile tenere insieme oca e bottiglia nella loro totalità? Anche il pensiero non può ri-uscire senza rischiare di rompere qualcosa. Innanzi tutto non possiamo dare per scontato la qualità del pensiero: si pensa pensando, ma si pensa. Ma non pensando, si pensa oltre ogni distrazione o divertissement. Nella loro totalità oca e bottiglia non si ostacolano, insorgono insieme ma senza reciproco impedimento.
“Quando il pesce nuota, scriveva Dōgen Zenji, per quanto nuoti non troverà mai fine all’acqua che nuota il pesce, che il cielo vola contenendo tutto”.
1 http://ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/09/26/eternita-ed-esistenza-la-polemica-su-severino/
2 Dōgen Zenji 1200-1253: considerato il Fondatore della Scuola Zen Sōtō, insieme a Keizan Zenji (1268-1325). Nel 1243 fondò il Tempio Daihonzan Eiheiji, Prefettura di Fukui, Giappone, tutt’ora esistente e del quale Fudenji è diventato Tempio affiliato (Ojikimatsu, 8-12-2016)