L’acqua nella tradizione zen

Re della Medicina, immagina un uomo che bruci di sete e brami dell’acqua...

«Re della Medicina, immagina un uomo che bruci di sete e brami dell’acqua. Inizia a scavare alla sua ricerca. Non risparmia gli sforzi e incomincia a vedere il terreno inumidirsi. Ora è più che determinato a proseguire, perché sa con certezza che si sta avvicinando all’acqua. Questo è altrettanto vero quando si intraprende la via del bodhisattva1. Fintanto che una persona non ha udito, non ha compreso e non ha ancora potuto praticare questo Sutra del Loto, sappi che quella persona è ancora molto lontana dall’anuttara-samyak-sambodhi2. Ma se è in grado di ascoltare, comprendere, ponderare e praticare il sutra3, allora sappi che si sta avvicinando all’anuttara-samyak-sambodhi. Per quale motivo?

Perché tutti i bodhisattva che conseguono l’anuttara-samyak-sambodhi vi riescono in ogni caso grazie a questo sutra. Questo sutra spalanca la porta degli espedienti e mostra la forma della vera realtà. Il tesoro del Sutra del Loto è nascosto in profondità e molto lontano, dove nessuno può raggiungerlo. Ma ora il Buddha lo apre istruendo, convertendo e guidando i bodhisattva al successo»4.

Mio padre mi iniziò fin da giovane all’escavazione dei pozzi. Allo sgorgare dell’acqua in superficie un adolescente come me riusciva ad apprezzarne la freschezza e la sua provenienza dalle viscere della terra era qualcosa di sconcertante, per niente scontato. Si trattava di un’esperienza straordinaria. Ma ciò che mi stupiva di più era che, scavando per cercare l’acqua, bisognasse usare acqua. L’acqua cerca l’acqua, diversamente non si può scavare un pozzo. Occorre, in un certo senso, un sacrificio delle acque. Questa meraviglia fu per me uno dei primi segni dello spirito religioso. Più avanti ne ho avuto bisogno per introdurmi e introdurre altri al discorso buddhista, ai dogmi principali che lo caratterizzano e a una prospettiva sfuggente: quella della totalità.

Non esiste un solo Buddhismo ma tante forme diverse, spesso anche in contraddizione fra loro. Alcuni dogmi, tuttavia, sono rispettati in tutte le tradizioni: tutto dolora, tutto inconsiste, tutto muta. Questi tre hanno in comune una totalità non totalitaria. Ma siamo effettivamente capaci di questa totalità che rinvia all’eterna quiete del risvegliato? Un tutto inteso come intero, hólos, ma anche come molteplicità, insieme di parti, pan. È qui che l’acqua ci viene prepotentemente in aiuto: se esaminassimo i passi delle scritture vediche che ne trattano, trasparirebbe come il Buddhismo abbia ereditato nozioni e categorie di quella civiltà.

Cito, per esempio, alcuni passaggi di uno studio del mito vedico delle acque a cura di Aldo Natale Terrin5:
«Sono attratto dalla presenza tematica mitica, anche se si colloca in un intreccio e in una sovrapposizione di temi molto complessa al punto di dare l’impressione di dover procedere da qualcosa di oscuro verso qualcosa di ancora più oscuro»6.

Il senso dei tre dogmi tutto dolora, tutto inconsiste, tutto muta è sfuggente, oscuro, non ovvio. «Sono attratto perché annuncia attraverso metafore ed ermetismi di vario genere che l’acqua è l’elemento più originario di ogni vita e nell’acqua in qualche modo va ricercato il significato stesso della vita come della nascita delle divinità»7.

È come dire che l’acqua è prima di ogni dio e che non possiamo comprendere la divinità senza l’acqua.

«Questi significati metaforici si annunciano quando, soprattutto nella cosmogonia originaria vedica si entra in contatto con Apam Napat, una strana figura di divinità dai tratti ancora molto incerti ed indistinti, caratteristiche che poi però stanno a fondamento della qualifica prima di questo Dio che “sta oltre gli dei”, che proietta intorno a sé un’aurea di mistero e di timore proprio in quanto è un Dio incontournable. (...) Letteralmente si tratta del “figlio delle acque”, Apam Napat.

Il nome c’è e viene ripetuto più volte nei testi del Veda, la personalità, invece, si nasconde di volta in volta dietro ad altre figure. Il Dio Apam Napat è una divinità che, a differenza degli altri Dèi, sta come sullo sfondo di una mitologia “trascendentale” (...) Se infatti questo Dio si identifica in qualche modo con un mito, si tratta di un mito che non si lascia ricondurre ad uno schema chiaro e articolato all’interno del mondo degli altri Dèi e nel contesto delle origini. È un mito che parla, per così dire, dell’esistenza di un “dio prima degli dèi”, che si pone fuori dal tempo e oltre gli spazi conosciuti»8.

L’acqua richiede acqua. Nel misterioso salire e scendere nel ventre della terra, si intuisce uno stato primordiale e ierofanico originario, fonte e culmine insieme. Deformare, imprecisare, accosta e moltiplica il dentro e il fuori, il vicino e il lontano, l’accaduto e il non ancora… Una soglia nella quale esterno ed interno si accostano. La memoria, ogni memoria, pare procedere per appunti e, per quanto accurata, deforma il ricordo, lasciando vasti spazi felicemente vuoti. Il taciuto, l’omesso giocano un ruolo più importante del dettaglio preciso. O meglio lo precisano… sfumandolo.

Il mio primo incontro con il Buddhismo Zen è avvenuto tramite un uomo, un testimone in carne ed ossa. Era un orientale che ho incontrato a Milano alla fine degli anni Sessanta. Egli perorava la sua causa insegnando la postura di meditazione, un termine che adesso trovo fuorviante. A quell’epoca ricordo dei manifesti per strada che lo ritraevano a gambe incrociate nella postura che noi chiamiamo zazen, lo Zen seduto. Un giovane poco più che adolescente che incontra un missionario vero e proprio, un apostolo, è un fenomeno abbastanza unico.

Quel testimone, a significare questo zazen – sedere immobili a gambe incrociate – spesso ripeteva, cantandoli, dei versi: recitavano più o meno così «Nell’acqua dello spirito, nelle acque spirituali, primordiali, si riflette la luna. Le onde quando vi si infrangono si trasformano in luce». All’epoca ero ben lontano dal figurarmi la potenza dell’immagine «Nelle acque dello spirito».

Solo recentemente, scoprendo i “Veda”, ho ritrovato un’idea di primordialità e di primitività sconcertanti, un qualcosa che fa uscire da sé. Il rito dello zazen è un’azione ludico-simbolica capace di introdurre nel mistero e nell’alterità del sacro, quell’ambito che non ci coincide. Le varie tradizioni religiose offrono un orizzonte simbolico entro il quale ripensare alla dimensione religiosa stessa. Tali linguaggi permettono al rito di essere nella sua totalità un’azione tesa ad estraniare dal mondo ordinario, senza peraltro annullarlo, per accedere ad un livello più ampio di esperienza, un’esperienza altra.

È inquietante trovare anche qui a Milano vie di una certa eleganza che vengono profanate dai murales. Ci sono delle opere e monumenti, invece, il cui valore simbolico, fa sì che non vengono toccati. Una specie di miracolo: qualcuno avverte la potenza del riferimento simbolico di un’immagine. La stessa trama ha portato quel missionario, tra gli anni sessanta e settanta a incontrare noi giovani ribelli.

Nel passaggio del Sutra del Loto si fa riferimento al pozzo a camicia9: si comincia a scavare e a costruire un muro circolare, andando in profondità fino a scorgere le prime tracce. Non risparmia gli sforzi e incomincia a vedere il terreno inumidirsi: è un momento molto intenso e provarlo è diventato una metafora per indicare lo spirito religioso: si avverte la presenza attraverso l’umidità e si intensificano gli sforzi. Ora è più che determinato a proseguire, perché sa con certezza che si sta avvicinando all’acqua. Questo è altrettanto vero quando si intraprende la via del Bodhisattva, ovvero la via della santità. Ci sono dei segni che si avvertono nella misura della nostra abnegazione, della nostra annegazione. Che importanza ha? Che cos’è l’acqua? Quella che teniamo nella caraffa sulla tavola durante la mensa, o qualcosa di più ampio, di incircoscrivibile?

Domanda: in riferimento alla dimensione primordiale, se si pensa che il nostro è definito il pianeta azzurro, quindi il pianeta dell’acqua, e che il primo movimento è stato quello di separare le acque di sopra dalle acque di sotto e di fare spazio alla terra, che non c’era o non si vedeva, l’immagine che invece è emersa oggi del dover scavare per trovare l’acqua dà proprio l’idea che ci sia un lavoro all’inverso da fare, un lavoro di ritorno alle origini. C’è qualcosa di questo nel testo?

Risposta: si potrebbe effettivamente dire di dover ritornare al principio. Proprio l’altro giorno ho ricevuto una lettera che mi sembra molto significativa a questo proposito:

«Vorrei anzitutto ringraziare coloro che mi stanno accompagnando in questo mio cammino. Mi piace la parola cammino: mi dà l’idea di qualcosa che ha un inizio, un proseguire e un divenire, ma la cui fine non è precisa, prestabilita. Preferisco usare il termine cammino piuttosto che percorso perché in qualche modo preclude il fatto che io stia usando le mie gambe e non altri mezzi.

Probabilmente è proprio questo il punto: usare le mie gambe.

Ho espresso il desiderio di ricevere i precetti pensando inizialmente di essere spinta dall’avere un mio ruolo, una mia posizione all’interno del tempio. Poi però, col trascorrere del tempo, rimuginando sempre di più su questa mia scelta, ho capito che ciò che mi guidava era qualcosa di più profondo, che andava oltre alla semplice voglia di poter indossare un Rakusu per sentirmi anche io parte integrante di questo posto.

È stato importante al fine di raggiungere questa consapevolezza l’essermi stata affidata la sbobinatura di una lezione del Maestro Taiten che si apriva con la metafora dello scavare i pozzi estrapolata dal “Sutra del Loto”.

Leggendola inizialmente ho pensato: “Ma allora io ho iniziato a scavare tantissimi pozzi nella mia vita, non portandone a termine neanche uno.”

Mi sbagliavo.
Ho iniziato a scavare un pozzo. Non tanti, uno solo.
Mi sono buttata, guidata da questa gran foga.
Assetata, estremamente assetata.
Ho scavato, scavato e scavato. Mi sono rotta le unghie, sporcata, graffiata le mani, mi è andata la terra negli occhi.
Irremovibile ho continuato a scavare anche quando fuori tirava un gran vento e tempestava.
Non ho mai smesso.

Ora sto sentendo il terreno inumidirsi.
L’umidità è la mia chiave, la mia forza.
Mi è stato detto che tutto ciò che ho fatto e che ho passato non è da considerarsi come un male, ma come qualcosa che va trasformato in bene. Subito ero scettica e non capivo: in tutti questi anni mi è sempre stato ammonito che avrei dovuto modificare, fino ad arrivare a cancellare quella parte che mi portava a compiere azioni di dubbia utilità, che sarei dovuta guarire.
Ed io non riuscivo a guarire, non capivo come avrei potuto farlo. Allora mi facevo ancora più male.
Ma se non avessi fatto tutto ciò, se non avessi continuato imperterrita per la mia strada, non credo sarei arrivata a sentire la presenza dell’umidità creata da quell’acqua che ho sempre cercato a gran fatica.
Ora la posso assaporare, entusiasta nel sentire il profumo della terra bagnata, reso ancora più intenso dal tanto dolore e dai tanti momenti in cui mi sarei voluta arrendere e lasciar morire di sete.

Oggi sono qui, a trasformare la mia ricerca. La mia identità è sempre stata dettata da comportamenti distruttivi che miravano all’eterna autoconservazione di me stessa, da quello sfrenato bisogno di approvazione da parte dell’altro, da quella necessità di vedermi riflessa in ciò che mi veniva rimandato dal mondo esterno.
Non voglio però, come ho sempre fatto, delegare la mia salvezza. Il cammino sta proseguendo sulle mie gambe.
Voglio continuare passo dopo passo.Voglio essere presente in questa comunità, insieme a questa comunità.
Voglio scegliere.
Voglio scegliere di scegliere ogni giorno.
Non so quanto ancora pioverà e tirerà il vento, non so quanta terra mangerò e quanto male mi farò.
Io continuo a scavare.
Continuo a camminare.
Sempre e ovunque la sete mi guida e mi spinge a non fermarmi». 

È una metafora potente, quella dello scavo, perché ci suggerisce la necessità della profondità, dell’approfondimento, dell’abnegazione. L’abnegato,l’annegato, si lascia travolgere, insiste: un’altra immagine per parlare della fede.

Domanda: Partendo da quella cosa che ti è capitata nel momento adolescenziale, quell’incontro, quella testimonianza che dici averti cambiato la vita, dopo tutti questi anni di esperienza buddhista zen, mi verrebbe voglia di dirti: Fausto, sei felice? E questa spiritualità ti ha riportato a quelle acque primordiali? L’esercizio e la pratica dello zen ti hanno riportato a quella ricerca, nella quale è difficile dare una risposta e dare un nome? Lì hai ritrovato il senso?

Risposta: Non lo so, perché vengo colpito da avvenimenti strani. Alla fine degli anni Ottanta mi resi conto che non potevamo insistere sulla diffusione del Buddhismo Zen presso una popolazione che rifiutava il Cristianesimo. Era una popolazione che per la maggior parte aveva una mentalità propensa al rifiuto. Cosa si può costruire attorno al rifiuto? Allora invitai un sacerdote di Rimini perché ci chiarisse che cosa fosse realmente il Cristianesimo. Onorò l’impegno con una serie di seminari molto appassionanti.



1 Bodhisattva, termine sanscrito che letteralmente significa “illuminazione vivente”. Nel Buddhismo Mahāyāna indica un essere che, attraverso il sistematico esercizio delle perfezioni (scr. paramita), lavora per diventare un Buddha; tuttavia rinuncia all’ingresso nel Nirvāna definitivo sino a che tutti gli esseri non siano stati liberati.

2 Anuttara-samyak-sambodhi termine sanscrito che significa “Supremo Perfetto Risveglio”.

3 La raccolta degli insegnamenti è tradizionalmente suddivisa in tre sezioni o “canestri” (Tripitaka), in base al contenuto dottrinale: Dharma-pitaka, il canestro degli Insegnamenti o Sūtra; Vinaya-pitaka, il canestro della Disciplina e Abhidharma-pitaka, il canestro dei Commentari. Fino al sec. I a. C. gli insegnamenti furono trasmessi oralmente, poi trascritti su foglie di palma disseccate, unite e avvolte con un filo (sūtra) e custoditi in contenitori o canestri.

4 Sutra del Loto, X cap. Hosshi.

5 Aldo Natale Terrin, già docente nell’Università Cattolica di Milano, insegna Fenomenologia della religione presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova. Utilizzando un metodo di indagine comparativo e fenomenologico, nelle sue ricerche teologiche si è occupato dell’analisi di alcuni temi chiave (tra cui mistica, rito, salvezza, profezia, liturgia) delle religioni mondiali e dei nuovi movimenti religiosi, giungendo a sottolineare l’intreccio tra sfera del sacro e dimensione antropologica. Tra le sue opere più recenti: Religione visibile. La forza delle immagini nella ritualità e nella fede (Morcelliana, Brescia 2011); Il mito delle acque in Oriente (Morcelliana, Brescia 2012); Liturgia come gioco (Morcelliana, Brescia 2014); Preghiera ed esperienza religiosa: per una fenomenologia del credere (Cittadella, Assisi 2014); Il rito: antropologia e fenomenologia della ritualità (Morcelliana, Brescia 2015); Meditazione buddhista: per una fenomenologia del corpo e della mente (Morcelliana, Brescia 2016).

6 A. N. Terrin, Il mito delle acque in oriente, Morcelliana, Brescia 2012, p. 10.

7 Ibidem.

8 Ivi, pp. 10-11.

9 La costruzione dei pozzi “a camicia”, in pianura padana, risale già alle antiche popolazioni neolitiche. Attualmente l’esecuzione di questi pozzi sfrutta la tecnologia oleodinamica e le camicie, non più in sasso o mattone ma in calcestruzzo, vengono calate, in fase di approfondimento terebrativo con la stessa “macchina” utilizzata per la perforazione. La loro peculiarità deriva dal fatto che il pozzo a camicia è un opera di grande volume interno adatta a sfruttare falde acquifere di bassa o bassissima portata che, con altre tecnologie, non potrebbero essere sfruttate. Il pozzo a camicia può essere utilizzato anche per la costruzione di “Well Point’ finalizzati all’abbassamento temporaneo o duraturo della falda acquifera.