L’ana-teismo non propone un nuovo Dio, una nuova fede, una nuova religione...
Il testo è contenuto in “Anateismo Contemporaneo”, a cura di Luigi Berzano, Pacini editore 2018, atti del Convegno internazionale “Ana-teismo: la riscoperta del divino”, svoltosi a Palazzo Lascaris della Regione Piemonte (Torino) il 5 dicembre del 2016 a cura dell’Osservatorio sul Pluralismo religioso, del Centro di Formazione Buddhista e della Chiesa di Scientology.
“L’ana-teismo non propone un nuovo Dio, una nuova fede, una nuova religione; ci invita semplicemente a vedere ciò che è sempre stato presente, disponibile una seconda volta”.
(Richard Kearney)
In una ben nota serie televisiva americana di qualche decennio fa, un padre sta morendo in un letto di ospedale. Lo assiste un sacerdote cattolico che ha provveduto ad avvisare la figlia, colonnello dei Marines. Il padre, che ormai stava perdendo ogni capacità di relazionarsi, aveva espresso il desiderio di ricevere il perdono dell’amata figlia.
Meg, una donna bella e intraprendente, si ritrova al capezzale del padre. Alcoolista, abbandonato dalla moglie, aveva comunque continuato a suo modo ad occuparsi della giovane figlia. Nel momento in cui dovrebbe spirare, lei gli prende la mano, lo guarda rasserenata, riconciliata, e lui compie un piccolissimo gesto, un segno impercettibile con un dito… La donna dubita sia un segno involontario, di quelli che fanno i morenti, ma il prete invece è certo si tratti del ringraziamento per il perdono concessogli…
Vero o no, il prete a questo punto recita una strofa: “Oltre la sponda, oltre ogni sponda, oltre ogni oltre, là dove non c’è inizio né fine, va senza timore”. Lei chiede sorpresa: “Preghiera cristiana, un passaggio della Bibbia?” “No, è una preghiera buddhista, ma non lo dica a Monsignore…”
Con uno stile decisamente più perentorio, idiosincratico, apparentemente intollerante e fondamentalista, tipico della gente di Mondo Piccolo, anche Giovannino Guareschi sembra non proporre niente di nuovo quando ribadisce, come un secco pugno sul tavolo da giocatore di tresette: “Per noi Dio esiste [!]” e poi, non meno risolutamente: “Ragazze? No, niente ragazze.
Se si tratta di fare un po’ di baracca all’osteria, una cantata, sempre pronto. Niente altro, però: io ho già la mia ragazza che mi aspetta tutte le sere vicino al terzo palo del telegrafo lungo la strada del Fabbricone”. Ora lui la sua ragazza la saluta senza nemmeno smontare dalla bicicletta: “Ciao!”, “Ciao!” risponde lei, ma… è ormai morta da dodici anni! Il figlio della terra e del cielo stellato coesistono senza impedimenti nel Mondo Piccolo. Là, l’infinitamente piccolo contiene l’estremamente grande e la remota lontananza fa la più segreta prossimità.
Profonde ombre nascondono bei pieni di luna
e dal cuore segreto nasce, cresce la fede:
parti di Dio, Buddha.
(Taisen Deshimaru)
Un mezzo secolo dall’introduzione del Sōtō Zen in Europa, giova ricordare un ricorrente ammonimento del Primo Patriarca di quella tradizione, Taisen Deshimaru Rōshi:
«Sebbene Buddha sia l’ideale che sostiene e sprona la nostra vita quotidiana, non bisogna esservi troppo attaccati, ma sapere andare verso ed oltre Buddha, Bukkōjō. Troppo attaccamento produce un’alienazione da sé e lo fa diventare un oggetto interiore. Dobbiamo diventare Buddha stesso che esiste nel nostro corpo e nella nostra mente. In quasi tutte le religioni Dio o Buddha diventa un oggetto di fede.
Nella coscienza e nel cervello si crea allora un dualismo tra sé e l’oggetto di fede. L’unità è rotta e la fede costringe fatalmente all’azione, e di conseguenza ad un’azione fatale. Questo non significa che non si debba onorare Buddha, ma non bisogna dipenderne. Onorarlo non ne fa un idolo. Agire con spirito mushotoku, senza scopo né profitto, è l’atteggiamento appropriato.
Si narra di un monaco zen di nome Tanka1 che, infreddolito, un giorno bruciò la statua di Buddha. Poi, di fronte ad un confratello scandalizzato, si mise a rovistare fra le ceneri: “Ma che cosa fai?” “Non vedi? Ne sto cercando le reliquie!”. Qui ed ora, noi dobbiamo trovare Dio o Buddha in noi stessi, diventare Buddha. Anche se per molti potrà risultare inverosimile e inaccettabile, ripeto: durante zazen ;si diventa dei Buddha viventi. Le statue di Buddha al centro del Dōjō non avrebbero significato senza le nostre sante posture2».
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Ogni chiesa o communitas ecclesiale vive, in un modo o nell’altro, il tempo di una situazione penultima tra promessa e genealogia del compimento, tra reale e ideale, già e non ancora. Una tensione che tiene in una situazione di incertezza e provvisorietà tra sopra e sotto i cieli, senza essere completamente dell’uno o dell’altro. Cittadini di due patrie, dentro e oltre il mondo (giap. sekken e shusekken, scr. laukika e lokottara) si tiene una riserva escatologia che orienta la speranza. In quel frammezzo, quell’entre, filo tirato forse fra tre punti, più che fra due, in cui si destreggia quell’animale acrobatico3 che è l’uomo, si trova e tiene un equilibrio costantemente innovato e rinnovabile.
E, come ci invita Heinz Wismann: seguire il filo teso dal funambolo che evoca lo spazio che s’apre fra le lingue – quello spazio attraverso il quale tendere il filo del pensiero che avanza e si inventa, sempre in movimento – arrischiarsi in questo va e vieni fra i bordi, con l’aiuto del bilanciere, ci espone ad un rischio, quello del pedone dell’aria che s’allontana risolutamente e decisamente dalle identità già costituite per escogitare la propria identità riflessiva.
Per Peter Sloterdijk la religione resta ancora oggi l’unico paradigma rimasto in gioco nel mondo occidentale che sappia farsi carico della verticalità umana. Nessuno può più ormai ritenere la felicità un probabile prodotto del benessere. Là dove accetti di “cambiare la tua vita”, la vita ti cambia e riscopri l’importanza dell’esercizio e la sua forza plasmatrice e incanalatrice delle tensioni verticali dell’essere umano4.
L’askêsis, ci ricorda Ivan Illich, non può non tenere conto dell’azione comune e conviviale. È un atteggiamento, una disciplina in cui prevale la parola, il verbo intransitivo e la ripetizione che sostiene l’abitudine, l’audacia e il coraggio di “rallegrarsi” e “soffrire” insieme5.
Una soglia è una cosa sacra.
(Porfirio)
Nyorai, Ōgu, Shōhenchi,
Myōgyōsoku, Zenzei, Sekkenge, Mujōshi,
Jōgojōbu, Tenninshi, BusseSon.
Risorto, Onorato, Onnisciente,
Perfetto, Benvenuto, Redentore, Sublime,
Infallibile, Impari Guida, Maestro d’Uomini e Deva,
Buddha Signore del Mondo.
Già con il suo venire al mondo il Neonato Buddha, indicando l’Alto e il Basso, reggendosi saldo sui piedi, dopo sette passi verso Nord, proclama autorevolmente: “Tenjō tenge yuiga dokuson”, Lui, sopra e sotto i cieli, sarà l’Unico Onorato al Mondo, BusseSon.
Ancora una volta in quella suprema liturgia che per antonomasia possiamo definire lo zazen, l’opera dall’alto si combina ritualmente e sacramentalmente con quella dal basso: “Se per un solo istante lasciamo che i buddha mudra s’imprimano nel corpo, nella parola e nella mente, solo sedendo fermi, ogni cosa negl’interi dharma mondi diviene all’istante buddha mudra”6.
Come evidenzia bene questo passaggio, nessun invito ad uno sforzo titanico, all’auto-emancipazione, ma piuttosto celebrazione e memoria dell’evento storico salvifico fondante, attualizzato e riattualizzato costantemente nell’abbandono pentecostale dell’attesa incondizionata.
Tra il capo puntato al cielo e le ginocchia spinte con forza sulla terra, ora, sarà facile arguire che anche questa celebrazione liturgica vive nella logica dei riti di passaggio, permettendo di passare dall’esperienza quotidiana all’esperienza della grazia. Se per un solo istante lasciamo che i Buddha mudra…: l’accesso al sacramento è attraversato da segni e simboli. Il suo carattere di soglia è implicito nella dinamica e nella tensione di quell’assoluto escatologico che può essere nominato Nirvana. E questa liturgia deve tenersi equidistante da due estremi: dalla contemplazione mistica priva di mediazione, e da quella che celebra unicamente ideologicamente e autoimplicativamente la situazione storica contingente7.
Al di là di ogni aspettativa o attesa, celebrare ritualmente inventa, trova sempre una soglia, un limite pericoloso, del già là e dell’ancora qui, sul quale non indugiare. Quindi “Quando entri nel dōjō, bada ad entrare come se inciampassi sulla soglia” esorta la Regola. La soglia è metafora del luogo, dell’occasione misteriosa, relazione tra pensiero e non pensiero, zona zero…
Questa straordinaria metafora che è la ‘soglia’ e che connota il senso di ogni celebrazione, ci avverte di quello spazio di mezzo tra il già e il non ancora, della dimensione propria ad ogni communitas ecclesiale. I riti liturgici dovrebbero sempre indirizzarci alla soglia dell’esperienza innominabile e dell’incredibile!
“Cos’è che fai sedendo in zazen?” chiese il maestro. “Faccio Buddha!” rispose il monaco e il maestro, inginocchiatosi prese a lucidare una mattonella.
Se nel Sacrosantum concilium la liturgia veniva ritenuta «esercizio del sacerdozio di Cristo» e «azione trinitaria nell’oggi della chiesa», era evidente il rilievo che si voleva dare alla tensione escatologica8. Nella tradizione del Sōtō Zen potremmo azzardare che si vive l’anticipazione del Buddha all’opera, gyō-Butsu, tra la promessa e il compimento del Buddha dentro l’esistenza, u-Bustu, e quello oltre l’esistenza, mu-Butsu.
In questa tensione che tiene in una situazione di incertezza, di travaglio e di frontiera tra sopra e sotto il cielo, il prima e il dopo non sono più solo temporali, ma accolgono l’azione, il comportamento che non sono condizioni di arresto, di stagnazione; sono capacità e confine sempre strettamente uniti e mutevoli, par le combat actuel à ce point du temps9.
Come a dire la condizione viatrice propria di ogni uomo – di ogni rinunciante, sannyasin – che, in virtù della Perfezione della Gnosi rinuncia al qui per l’al di là e, non indugiando nell’al di là, in virtù della Perfezione dell’Agape, al di là dell’al di là ritorna nel qui trasfigurato, collocandosi nell’ambiguità irrisolta del già e non ancora, u-Butsu, mu-Butsu. Il qui ed ora trasfigurati nell’al di là dell’al di là, dove non c’è più inizio e fine, insieme andiamo, insieme ritorniamo.
Non formule astratte quindi, ma una ri-nascita, una resurrezione incompatibile con un vivere che non accetti, accolga l’umanità mortale: “Nella sua viva via il nirvana altro non è che nascere e morire. Non più allora nascere e morire da temere, nirvana da bramare” (Shushōgi, Sez. I)
Ma anche la figura di Shakyamuni Buddha, incarnazione del Maestro di Uomini e Deva, Tenninshi, inaugurante il suo Regno nel mondo, non poteva che scomodare una Sua seconda venuta come Colui che ha sempre da venire, Maitreya Butsu, come a moderare le tentazioni millenaristiche o iperottimistiche dei movimenti di emancipazione recenti, della fuga mundi nei paradisi terreni, della scelta monastica o conventuale.
Dov’è il dolore, là il suolo è sacro
(Oscar Wilde)
Sempre dalle parti del Mondo Piccolo si era soliti udire: “Capirai, dicono che è morto dal freddo quand’era padrone della legna!” Una bella e concisa espressione per dire dello scandalo che attraversava la vita – una vita fatta di gioia e dolore che connetteva tutti e a cui niente e nessuno potrà mai sfuggire. Ma, inciampo dello scandalo, cos’è soglia? Qual’è la connessione tra soglia e dolore?
La soglia come ciò che regge il frammezzo, è dura perché il dolore l’ha fortificata, il dolore l’ha pietrificata10: un dolore che strappa ma che insieme connette. E il dolore nella sua radicale indicibilità connette l’interno e l’esterno, ricuce lo strappo che provoca. Così la soglia, vero luogo dello scandalo è là dove tutto è dolore (scr. duhkhāh sarvasamskārāh), dove tutto dolora, dove l’accento impensabile è sul tutto: insieme un luogo, un temenos nell’altrove, che si fa tempo dell’altrove.
Questo, lo Zen che si tuffa nella sofferenza non sfuggendo da quel che è doloroso né ricercandolo. Dalla soglia pietrificata, scandalosa, senza appello, fredda, implacabile del tutto dolora, alla contemplazione della vera natura di ogni esistenza transeunte e priva di sostanza propria (scr. sarvasamskārāh anityā e sarvadharmāh anātman; giap. mujō, muga), s’entra così perennemente e senza indugiarvi in quel regno della pace dello spirito, anjin, e nella perfetta pace della Despirazione Finale, nehan jakujō.
In altri termini, perciò, entriamo costantemente liberati attraverso l’azione consumata e liturgica. Non facciamo riti perché crediamo, ma crediamo perché facciamo riti. Il rito concepisce l’umanità, fa memoria e orienta. S’assume e assumendosi assume la precedenza, l’alto e il basso, la destra e la sinistra, il vicino e il lontano, l’intimità e l’estraneità, l’identità e la differenza, superando persino la più sofisticata concezione causale.
Colui che qui s’avverte errante, là, nell’altrove del tempo, ha patria e abita la non domiciliazione in questo mondo, scr. sannyas.
Ora la ‘soglia’ impedisce anche una prossimità eccessiva, quella che si vorrebbe garantita dalla verità unica e dalla prassi unica del pensiero unico e fondamentalista.
“Colui che attraversa questa soglia11 – scriveva Dogen Zenji – non conosce giustamente colui che va al di là del Buddha che esiste e ignora colui che va al di là del Buddha che non esiste. Colui che va al di là del Buddha non è nient’altro che un Buddha che si nega, hi Butsu!”
In altre parole, Dio, Buddha che così sorgono e ri-sorgono, vengono e vanno come se non venissero e andassero: irriducibile corpo che non aumenta né diminuisce, corpo di gloria e di infinite trasformazioni e incarnazioni.
1 Tanka (Tan-hsia T’ien-jan, cin. 738-824).
2 I sette principi di Dōgen Zenji, Quaderni Honshō Myōshu, a cura dell’autore.
3 Cfr. L’animale acrobatico. Origini e sviluppo del concetto di antropotecnica nel pensiero di Peter Sloterdijk, Antonio Lucci Esercizi Filosofici 7, 2012, pp. 78-97.
4 Cfr. P. Sloterdjik, Devi cambiare la tua vita, Cortina Raffaello Edizioni, 2016.
5 Cfr. Ivan Illich, Perdita dei sensi, Editrice Fiorentina, 2009.
6 Shōbōgenzō Bendōwa, Jijuyū Zanmai, Del me che riceve ed usa il giocoso gioco samadhi, traduzione italiana a cura dell’autore.
7 Cfr. Roberto Tagliaferri, Celebrare sempre sulla soglia, RPL 295 Nov. Dic. 2012
8 Ibidem
9 Cfr. Taisen Deshimaru e Paul Chauchard, Zen et Cerveau, pag. 23, traduzione a cura dell’autore.
10 Cfr. Roberto Tagliaferri, Celebrare sempre sulla soglia, RPL 295 Nov. Dic. 2012
11 Shōbōgenzō Bukkōjōji, traduzione dell’autore