Articolo apparso sulla rivista DBN magazine n.15 marzo 2015
Lo Zen non esiste, o meglio era un marchio per un pubblico di consumatori che sta scomparendo. Per quel che ci riguarda, tutto incominciò con un giovane che s’era messo allo Jūdō e, nel pieno dell’inquietudine della sua ricerca, incontrò un sacerdote cattolico, Don Lino: “Ma Cristo aveva un metodo?”, domandò quel giovane. “No, Gesù mangiava, beveva, urinava come tutti e aveva compagnie spesso discutibili” rispose il prete. Il giovane se ne andò soddisfatto dell’incontro, ma scontento della risposta.
Ritornò a ricopiare a mano Lo Zen di Alan Watts, uno dei pochi libri sull’argomento allora esistenti in Italia. La sua inquietudine si andava amplificando e il senso di quella risposta mancata approfondendo.
All’indomani del suo primo titolo nazionale di Jūdō, fece l’incontro della sua vita, Taisen Deshimaru Rōshi (1914-1982), a sua volta improbabile discepolo di un noto protagonista della scena del Buddhismo giapponese, Kōdō Sawaki Rōshi (1880-1965). Soprannominato Kōdō senza tetto, con la sua vita aveva, per certi aspetti, contribuito a vivificare la tradizione dello Zen Sōtō di buona parte della prima metà del ’900.
L’insegnamento di Taisen Deshimaru era schietto, diretto e difficile nella sua enigmatica semplicità. Agli Europei che gli chiedevano dello Zen, spesso rispondeva: “Lo Zen è zazen”.
Zazen è Satori e Satori è il ritorno alle condizioni normali del corpo e della mente, la postura del Buddha”. Per quel giovane le parole del Maestro Zen non erano meno inquietanti della riposta del sacerdote cattolico, ma lo stavano aiutando a considerarla da una nuova prospettiva. Ad anni di distanza la questione delle “condizioni normali del corpo e della mente” avrebbe preso per lui un tale respiro da rivelarsi come una sintesi aperta sui problemi più profondi sollevati dalla fenomenologia, dall’epistemologia e dall’ermeneutica contemporanee.
La scomparsa prematura di Taisen Deshimaru spinse quel giovane, ormai adulto, ad aprire una nuova missione nel suo paese. Nasceva il Tempio e Monastero di Fudenji.
Arrivando a Fudenji può capitare che, tra gli alberi ormai cresciuti dell’ampio parco, si intravveda una grande calligrafia appesa sulla facciata del Tempio, Bukkōj, verso e oltre Buddha. Subito dopo essersi scalzati troviamo un altro scritto:
In altre parti del mondo i giovani partono per lunghi viaggi, in cerca di un futuro promettente, spesso sospinti dal sogno di far trionfare il bene, di trovare un grande amore, o dalla speranza di fare facilmente fortuna. Qui nel Tempio dell’altrove si arriva solo traslocando, sognando. L’unico motivo per cui puoi arrivare, è saperti orfano. Puoi sperare di diventare un eroe, ma qui non esiste una tale possibilità. Nel mondo freddo, arido e pieno di solitudine di chi si è perduto, non c’è posto per gli eroi. Ma qui, prima o poi, puoi scoprirti a guida di molti, e vederti adulto. E forse, di qualcuno, padre, madre, fratello, sorella.
In fondo ad una breve scalinata, si passa sotto ad un cartello: Il tuo silenzio sarà ascoltato.
Nella Sala della Fenice, spazio dedicato alle conferenze, troviamo: Scandalo, carità e libertà.
Entrare nel Dōjō, esercitarsi nello zazen shikantaza, esercitare nel luogo ove si uccidono gli uomini.
Non si entra senza inciampo, scandalo.
Non si entra senza la decisione del dono.
Non si entra senza l’abito della libertà.
Forma esigente, esigentissima il solo zazen. Il solo semplice, povero, semplicemente sedere… azione che si dà all’azione. Forma, esercizio, indissociabili, niente da scambiare. Natura, nascere da palesare, verificare, provare, esercitare. Esercizio naturale, inconscio, automatico. Esercitarsi naturalmente, inconsciamente, automaticamente, non sorretti da alcun artificio. Nel suo darsi continuo e immotivato il nostro esercizio si rende inconsciamente, automaticamente e naturalmente, trasparente all’azione che si dà sempre e comunque, in ogni luogo, qui nell’altrove del tempo.
Senza luogo, il Dōjō, in ogni luogo non ha luogo ove possa posarsi il passo. Non altro che esercizio della forma, esigentissimo. Esercizio, tempo di presenza, presenza precaria e preziosissima. E anche se tutti teniamo e fuggiamo questa forma, troppo esigente, prima o dopo, tutti vi ritorniamo. Ci esige, ci domanda, si ripete… D’istante in istante dall’inizio alla fine, dalla fine all’inizio si ritorna a questa forma, via di pietà e misericordia.
Samadhi, un istante seduti e basta.
Senza pensare che morire serva a qualcosa, hai imparato, in tutti questi anni, che niente si fa se non disfacendosi. Proprio nulla da fare… oziare… imparare a non fare nulla, tornare sempre alla forma della nostra presenza, non distratti dal passato, futuro e presente. Stiamo e non stiamo nel cuore vertiginoso, vortice fermo e inarrestabile dove tempo e spazio, forma e vuoto danzano mano nella mano, si scambiano a super velocità.
(F. Taiten Guareschi, 29 agosto 2011)
A chi poi volesse passare almeno una giornata intera seguendone la regola, ovvero sedendo in silenzio, recitando le Scritture, pulendo i locali del Tempio, lavorando in giardino ecc. potrà accadere di sentire una conferenza dell’Abate:
“Quando pratichiamo il Buddha-Dharma, scrive Dōgen Zenji, non dovremmo farlo per nostro vantaggio. Asteniamoci dall’inseguire o dal rifiutare. Lasciamo da parte il desiderio per la fama e il profitto. Non pratichiamo zazen nell’intento di guadagnare una buona reputazione”. È l’esercizio di zazen shikantaza: solo e semplicemente seduti, nient’altro che seduti. In ogni azione della vita è possibile applicarsi allo stesso modo, spendendosi completamente in ogni cosa. Lo spirito di non profitto è il genuino e rischioso esercizio della libertà, il segreto della pratica. “Zazen è inutile, non serve a niente, è una totale sconfitta”, insegnava Kōdō Sawaki.
Il progetto umano non lo subordina. Anche il desiderio di liberarsi dalla noia o dalla sofferenza, di realizzare la pace dello spirito o di ottenere la saggezza è solo fabbricazione umana. Il Risveglio, il vero Satori è disfarsi di sé e di ogni ricerca. Nessun attaccamento, nessuna aspettativa – perdita assoluta. Senza aspettarsi qualcosa in cambio, offrirsi a viso aperto dando un senso di fiducia, di sollievo. Senza oggetto è la mente non impedita dal proprio egoismo. La libertà non è l’egoismo. Dare troppa importanza a se stessi è solo fonte di preoccupazione, di difficoltà e di timori. Inconsciamente, irriducibilmente liberi: mushotoku è l’abbandono di sé, dei propri pensieri, delle costruzioni mentali. La vera compassione consiste in questo abbandono, da cui trae origine e a cui ritorna.
Ma che dire oggi dello Zen e di quel morbo che chiamano meditazione zen, in quel mondo dell’informazione obbligatoria in cui ormai migliaia e migliaia di siti web hanno spesso la pretesa di offrirsi allo sguardo lubrico degli smanettatori della rete del mi piace – non mi piace? Contrariamente ad una convinzione diffusasi negli ultimi decenni e soprattutto in area europea, non è pensabile confinare la cultura Zen – almeno nella forma della tradizione Sōtō – ad una mera pratica, né tantomeno ad una tecnica meditativa introspettiva intesa utilitaristicamente e strumentalmente.
Già nel Fukanzazengi, composto nel 1227 dal fondatore dello Zen Sōtō, Dōgen Zenji (1200-1253), si evidenzia quanto lo zazen shikantaza non sia da confondere con l’apprendimento di una meditazione nella quale si avanza per gradi. E ancora nel suo incipit il testo pare non lasciare adito a dubbi: “Tale è la via in origine piena perfetta nella sua strenua ricerca. Come può volersi coll’esercizio ed il risveglio? Dell’origine il vero veicolo è incondizionato, perché l’affanno e l’artificio? Ben aldilà della polvere del mondo è l’intero corpo, come credere di mondarlo? (…) Di Gion1, d’innata sapienza, perdura l’orma: sei anni assiso fermo e saldo”.
Come ricorda la I sezione dello Shushōgi,
L’esercizio nel Risveglio:“Chiarire del nascere, chiarire del morire / la causa e il caso / è la prima grande questione / per chi del Buddha fa la sua dimora (ichi dai ji innen). / Darsi non c’è del nascere morire. / Nella sua viva via / il nirvana altro non è / che nascere morire. Non più allora / nascere e morire da temere, / nirvana da bramare. Così d’ora e per sempre liberi / dal nascere e morire saremo. / Chiarire questa prima grande questione / della causa e il caso / è certo di suprema importanza”.
Con il Sutra del Loto, celebre scrittura mahāyana, ci siamo chiesti per quale ragione Buddha appare in questo mondo, ichi dai ji innen. Avvenimento, la Ragione misteriosa dell’apparire del Buddha nel mondo, è l’ardente desiderio dell’uomo. La ragione profonda, il singolare caso, en, della causa, in, è da ritrovare nella corrispondenza fra l’uomo e il senso del suo ardente desiderare, che fa apparire Buddha, fa rispondere Buddha.
Buddha stesso è quell’evento che costituisce ciò che noi chiamiamo la realtà. La realtà tutta è evenemenziale, è costituita di eventi. L’interfaccia, o meglio, ciò che è trasparente all’Evento è il rito, ovvero ichi dai, l’attitudine rituale. Il rito, in quanto azione immotivata, è azione pura e disancorata da ogni finalizzazione, mushotoku. In questa prospettiva e a questo proposito, possiamo anche comprendere l’insistenza esagerata del Maestro Deshimaru sull’esercizio dello zazen mushotoku, cioè senza-scopo e non finalizzato, quale suprema cerimonia e quindi rito.
E ancora, occorre ricordare il ricorrente richiamo riscontrabile nell’intero Shōbōgenzō2 alla pelle, ai muscoli, alle ossa e al midollo dei Buddha Patriarchi, quali espressione di totalità che è però tale grazie ai suoi fattori distinti e singolari. Deshimaru Rōshi usava accostare simbolicamente la pelle alla dimensione sociale, quello dei muscoli alla dimensione salutare, ma di natura fisica, quello delle ossa alla dimensione spirituale ed infine quello del midollo alla dimensione mushotoku, immotivata e non finalizzata e quindi religiosa. Insomma, quattro fattori paradigmatici di una realtà unica e differente insieme.
C’è chi, come gli scienziati, analizza e chi, come gli artisti, sintetizza; i religiosi, loro, provano a restare distanti sia dall’una, che dall’altra… provano a parlare, ma soprattutto si offrono alla mancanza di risposte, offrono il loro silenzio, quel grande silenzio che li chiama a parlare, sentire e… pensare a partire dalla realtà in azione. Un modello, il loro, che interrogava … e affascinava quel giovane già prima dei suoi venti anni. Ogni religione, quando non si riduce a religione della società, domanda di accostarsi fiduciosi al mondo dell’invisibile… al mondo delle risonanze.
Il mondo dello Zen non esiste, è un mondo d’invenzione prettamente occidentale e se esistesse sarebbe popolato di demoni che spesso credono ad una pratica o meglio ad un metodo per uscire dall’antro/caverna dei demoni della montagna nera, scriveva Dōgen Zenji – considerato insieme a Keizan Zenji fondatore dell’Ordine Sōtō – nello Shōbōgenzō Ikka no Myōju, Una perla brillante. E quando qualcuno in funzione d’un dono ricevuto s’avvia ad aprire una strada, non sarà mai davvero riconosciuto se non nel tempo a venire… Perché se è vero che ormai noi contiamo 2581 anni dalla Sua nascita, è altresì vero che un Buddha-ha-anche-sempre-da-venire, è sempre al di là da venire.
Può capitare anche di trovarsi a Fudenji nel giorno in cui i monaci escono per la questua rituale, takuhatsu, e di accompagnarli nelle città vicine, Salsomaggiore Terme, Fidenza, Parma…
Così in questo non riconoscimento quegli uomini e quelle donne, propriamente chiamati unsui, escono dal loro convento e nascondono il volto con i loro ingombranti copricapi, hachirogasa, nell’antica convinzione di condividere fortuna e meriti incalcolabili in città, paesi e villaggi… Tendono la ciotola vuota del loro sobrio pasto e recitano zaihō ni se kudoku muryō dan baramitsu gusoku enman, i beni materiali e il bene del Dharma sono due doni il cui incommensurabile merito si completa nella perfezione della carità, del dono. E quando qualcuno offre e non li riconosce, aggiungono naishi hokkai byōdō riyaku, un eguale impari virtù e merito vengono generati e condivisi tra chi offre e riceve… Offrire e ricevere con una mano pura, scevra da calcoli, pretese.
Questa è la prima delle Dieci Perfezioni del Bodhisattva, Fuse Haramita, la perfezione della carità e del dono. Tutto inizia col dono… e non un do ut des, ma un donare nella perfezione inarrestabile di quel merito-dono che attraversa, pervade le epoche e i mondi interi.
L’unsui, nuvola e acqua, ha sempre dipeso dalla generosità e dalla carità del mondo.
A Fudenji si vive di offerte, perché dipendere è una faccia della libertà e dell’interdipendenza di ogni forma di vita: paradossale evidenza la loro, che del mondo hanno voluto lasciare la fabbricazione.
“Samnyasin: primo transfuga, non perché rifiuti il complicato sistema di scambi che si fonda sul rituale, ma perché pretende di assorbirlo in sé, nel suo inaccessibile spazio mentale. (…) È l’uomo fuori dal mondo, che ha reciso i legami con la società – e al tempo stesso si rivelerà poi di enorme efficacia nell’azione sulla società”3, come scrive Roberto Calasso che trova in questa figura l’antesignano del soggetto, dell’intellettuale e dell’artista. “Sono gli artisti, sono quelli che studiano – e nella pratica della loro arte, del loro studio trovano l’origine e la fine di ciò che fanno”4.
Parliamo del corpo, del rito, ma nel suo divertimento è tutto molto serio. Bisogna imparare a guardare con forza negli occhi dell’uomo. Non c’è sorriso, né pianto che tenga, ma una profonda impassibilità. La società favorisce atteggiamenti ammiccanti, polemici, ma non c’è fermezza negli sguardi. L’educazione zen non è passatempo. Bisogna rischiare l’impopolarità. La relazione maestro discepolo deve mantenere una sua autonomia. Il metodo, l’educazione ha un suo stile.
Nell’educazione si deve rischiare la sconvenienza, non mendicare il consenso. La decisione: in un attimo si gioca la vita e anche i tempi lunghi comportano l’implacabilità degli istanti. È una qualità dell’esistenza assolutamente unica. Un solo istante, una sola parola e siamo salvi. La parola, senza girarsi, senza ma, senza se, senza però, senza appelli.
Ecco allora manifestarsi un orizzonte straordinario.