Apparso sulla rivista “Link” n. 24, Dicembre 2018
Ottimista irriducibile il maestro, avviato sul sentiero del fallimento totale, lascia spazio all’allievo soccorritore. “Tu puoi arrivare dove nessun altro può arrivare”, esorta il maestro. “Onora il tuo dono e poi, salvane più che puoi!”. “Ma come potrò scegliere chi salvare?”, incalza l’allievo. “Offrire e ricevere salvezza sono parole senza senso per due che si amano”, risponde enigmaticamente il maestro. Qualche tempo dopo, a corso finito e al primo soccorso con successo: “Qual’è il suo numero?” domanda l’allievo. “22!”, “22 non è 200 come avevo sentito dire, ma non è male”. “22 sono quelli che ho perso, gli unici che non ho mai potuto dimenticare”.
C’è chi, innocente, assume la colpa e chi, colpevole, si fa carico di ancora più colpe, risultando infine un innocente ad occhi benevoli. Piante lussureggianti crescono nelle vicinanze dell’acqua. Tutto ciò che sta lì con le piante – acqua, rocce, terra, luce solare, ombre – si fonde o svanisce in un tutto indicibilmente armonioso. Nel mezzo della natura niente esiste da solo, isolato dal resto.
Anche noi non esistiamo disconnessi dal mondo intorno. Gli stessi processi del pensare, sentire, parlare ed agire sono collegati a tutto ciò che si manifesta dentro e fuori di noi, così come le piante sono connesse a tutto ciò che le circonda… Dipendenza quindi ma anche interdipendenza e paradossalmente assoluta indipendenza. In definitiva con questa indipendenza assoluta l’armoniosa sintesi tra gli aspetti oggettivi e soggettivi della totalità delle esistenze viene superata. Nello straripante vigore la realtà-in-azione, con quel passo indietro, consumandosi, fallendo, sfocia nella libertà.
Così Buddha Shakyamuni sedette ai piedi di un gigantesco Ficus religiosa, dorso rivolto all’albero, in perfetta, armonica unità con ogni cosa, quel che Taisen Deshimaru definì il combattimento attuale all’incrocio del tempo orizzontale e verticale. Un fallimento agli occhi di questo mondo, ma profonde radici che affondano salde nella grande terra, il torso eretto e composto, l’aria che si muove liberamente dentro e fuori, lasciando acquietare ed accordare gli organi di senso.
Ogni cosa che si manifesta dentro e fuori, e poi ogni realtà del mondo naturale – animali, piante, montagne, fiumi, cielo e stelle – fanno da contenuto al suo assettarsi… Questa, in verità, la condizione originale con cui il mondo nei tre tempi e nelle dieci direzioni è intimamente ricevuto e utilizzato come il proprio vero corpo: nulla che non ci confermi o verifichi! Seduti, assettati al centro del mondo e simultaneamente in ogni periferia. Dovremmo valutare a fondo quanto questo assettarsi, aperti all’intera realtà del mondo, sia stato rivoluzionario nella storia dell’umanità.
Tuttavia, tutte le forme di meditazione indirizzate all’ottenimento di uno specifico stato mentale chiamato dhyāna e che Shakyamuni aveva sperimentato dopo aver lasciato la sua dimora regale, erano in un modo o nell’altro metodi per fuggire il mondo presente, la cruda realtà piena di sofferenza di questa vita terrena.
La destinazione finale, che sia il nirvana o il paradiso, è spesso immaginata come remota e inattingibile. Sacro e profano, questa riva e la riva dell’aldilà, questo mondo e quello futuro, queste dimensioni dualistiche si scontrano l’una con l’altra. Ma davvero Shakyamuni indugiò in questa prospettiva dualistica? Non cercò invece di superare proprio questa struttura rivelando e insegnando la co-produzione condizionata, (giap. juni inen), predicando amore e compassione (giap. jihi)?
In realtà non promosse la separazione, il distacco, il rifiuto della realtà, quanto le relazioni e i legami che l’animano. Inoltre, invece di enfatizzare la vita in un aldilà escatologico, enfatizzò l’importanza di vivere una vita appagante nell’eterno presente dell’intera realtà intesa nella totalità dei suoi fattori costitutivi, (giap. shohō jisso, jū nyoze). Tuttavia nello sforzo di istituire il ‘Buddhismo’ in quanto ‘religione’, il messaggio originale divenne distorto fino al punto da sembrare l’opposto, la negazione del mondo e del desiderio.
Quella negazione del mondo e il ritrarsi da questa vita era il sentimento dominante nell’India di quel tempo. Shakyamuni era nato in quell’ambiente culturale e, pertanto, era naturale che – abbandonata la sua regale dimora – pensasse e vivesse all’interno di quella visione consolidata. Tuttavia, alla fine dei suoi sei anni di rigidissima ascesi realizzò intuitivamente che il problema originale era proprio quella visione dicotomica. Quando intuì che, se fosse rimasto così imprigionato in quella prospettiva, non gli sarebbe stato possibile risolvere la questione esistenziale che lo attanagliava, riuscì a fare un passo ulteriore.
La forma specifica di questo passo rivoluzionario divenne allora sedere semplicemente nel risveglio ai piedi dell’albero della vita e axis mundi, nella contemporaneità sua e di tutti i fenomeni visibili ed invisibili dell’intero universo. Dalle pratiche ascetiche estreme al sedere immediatamente nella pace dello spirito, questo scarto paradigmatico rappresentò una mutazione radicale: dal ‘fuggire da questo mondo che trasmigra’ ad ‘assestarsi simultaneamente in questo mondo che dolora e nella pace dello spirito’. Con i piedi ben saldi su questo mondo terreno, perseverare nell’atteggiamento di chi si dona completamente a quella vita che a sua volta si dedica totalmente a ciascuna esistenza, fu l’incarnazione e il godimento di quel sublime assettarsi.
Mentre era impegnato nella pratica ascetica, Buddha Shakyamuni aveva negato ogni relazione con il cibo, digiunando o assumendone quantità estremamente piccole. Tuttavia, come recita il mito, proprio poco prima di sedere ai piedi del grande albero della vita, Shakyamuni accettò l’offerta di riso e latte donatagli da Sujata, una giovane contadina che s’era trovata a passare da quelle parti. Grazie a questo cibo, Shakyamuni recuperò le forze che lo stavano ormai abbandonando. I compagni di ascesi, vedendolo cibarsi, l’abbandonarono delusi, ritenendolo incapace di perseverare.
In verità, Colui che poi diventò il Buddha, l’Illuminato, ai piedi dell’albero del risveglio, al chiaro splendore notturno di Venere, fallito il suo primo proposito, ben comprese che qualsiasi pratica ascetica estrema non era il giusto sentiero verso la salvezza! La decisione di rompere con un metodo che aveva abbracciato con tanto entusiasmo per molti anni, avendolo scoperto vano, velleitario e inefficace, richiese molto coraggio. D’altro canto, non era irragionevole da parte dei suoi compagni d’ascesi, all’interno della prospettiva di negazione del mondo, il ritenere, almeno in un primo tempo, le sue azioni come una ricaduta o una corruzione.
Quando Shakyamuni ricevette l’offerta di riso e latte da parte di Sujata, il suo atteggiamento verso il cibo cambiò radicalmente. E fu in grado di accettare con autentica gratitudine l’offerta di cibo, quella carità di cui il mondo vive e che è giusto servire.
Tutto al mondo dolora, rivela il Buddha, invitando alla separazione dal mondo della fabbricazione, ma anticipando l’inevitabile necessità di stabilire, in quel fallimento che già l’anticipa, quella vastità in cui nulla manca e nulla è di troppo, quella via di mezzo (giap. chūdō) né ascetica né edonistica.
Il fallimento, l’insuccesso del suo tentativo di affrancarsi dal mondo che dolora come rinuncia all’hybris, una tracotante, arrogante pretesa d’essere perno insostituibile, un rigido perno attorno al quale tutto dovrebbe ruotare.
Elisabeth Bishop scriveva in One art: “The art of losing isn’t hard to master; / so many things seem filled with the intent / to be lost that their loss is no disaster. / Lose something every day…”2
Una persona che continua a perdere, tende a migliorare velocemente. La strada della sconfitta, del fallimento è difficile, impegnativa ma maestra molto redditizia. Nella mia prima gioventù mi impegnai nell’agonismo sportivo. Purtroppo speravo sempre di incontrare avversari più deboli… L’unica soluzione veramente miracolosa è l’oblio di sé, perdere, il dono di sé. Noi siamo quell’alieno che in quella pubblicità continua insoddisfatto, alienato appunto, a bere compulsivamente.
Ci vuole qualcuno di inaspettato che beva con lui per toglierlo dalle sue ossessioni. Ad un certo punto incontriamo qualcuno e rimaniamo a bocca aperta. Guardiamo la luna che ci guarda e il cagnino che ci accompagna gira la testa, guardando verso una presenza che non vediamo, ma che è lì a ri-guardarci sempre e comunque…
A partire dall’assenza c’è un incredibile moltiplicarsi di azioni. Dobbiamo poterci svuotare. Vuotarsi significa diventare capienti.
Il generale tedesco di Band of brothers, vinto, parla ai vinti, convincendo involontariamente il vincitore che anche il vinto ha vinto, che lo sconfitto ha pure una sua vittoria. Marte non chiede propriamente vincitori né vinti ma solo guerrieri. Anche il maggiore americano pare destarsi alle parole del generale sconfitto, convinto che avrebbero potuto essere le stesse che avrebbe voluto indirizzare ai suoi soldati.
“Soldati, è stata una guerra lunga e molto dura. Avete combattuto con coraggio e con fierezza per il vostro Paese. Siete un grande esercito… e tra voi avete creato un legame, che nasce soltanto in battaglia, tra soldati… che condividono le stesse difficoltà. Vi siete aiutati nei momenti più difficili, avete sofferto e visto la morte in faccia. Sono molto orgoglioso di tutti voi, uno per uno. Meritate una vita in pace, lunga e felice”. C’è chi, colpevole, assume l’innocenza e chi, innocente, si fa carico dell’innocenza, destando il sospetto da parte di chi ha un cuore incline alla malizia…
A sigillo del grande magistero esercitato dal fallimento, nelle profondità e nell’oscurità del mare resta sempre quel vecchio maestro soccorritore sconosciuto pronto a salvare chi è stato dimenticato.
1 Apparso sulla rivista “Link” n. 24, Dicembre 2018
2 “Dell’arte di perdere si è facili maestri; / ogni cosa pare così colma nell’intento / d’andare persa, che perderla non è un disastro. / Perdi qualcosa ogni giorno” (traduzione di Damiano Abeni)