Nel frammento dello spezzamento la sete della perfezione

Prefazione al libro “Kintsugi. Un viaggio alla scoperta dell’Oriente” di Anita Cerrato, Ed. Stilnovo, 2018.

La ricchezza: tanti frammenti di fragilità.
Gratuiti, in un mondo che non sempre  accorda accoglienza e riconoscimento. 

Bambino, mi accadde di accompagnare mio padre a rendere visita alla figlia di un anziano zio paterno da poco scomparso. Commossa, ma piena di orgoglio, ella ci mostrò una serie di opere che il padre le aveva lasciato. Mi colpì un vaso cinese andato in pezzi, che lui aveva ricomposto perfettamente. Mi sembrò una magia, una di quelle che accompagnano per la vita. 

Fragilità e ricomposizione, continuità e discontinuità nel periglioso ma affascinante viaggio attraverso le regioni oscure ed esposte della nostra anima. Spezzamento e riunione che compongono inusitate ricchezze e generose variazioni. Fragilità di chi si espone e di chi, rischiando, osa la libertà… Fragilità fiduciosa e fluida, antica resina che cola e corre, rinsaldando fratture incomponibili. Via imperfetta alla perfezione, nella sua fragilità sta la bellezza e la preziosità della tazza. Ciotole e calici elevati chiamano le mani e il cuore a testimoniare d’un patto, d’un giuramento e di una promessa che chiamano in gioco l’inafferrabile Altro. Un fragile librarsi verso una realtà simbolica, il gesto e il racconto che avvicinano i lembi di realtà manifeste e invisibili senza che questi possano mai davvero perfettamente combaciare, così come è sempre avvenuto attraverso il riaccostamento dei cocci simbolici. 

Fragile e precaria, la condizione umana sta sempre in bilico, in tensione tra finitezza e infinito, terreno e divino. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” scriveva Ungaretti. En, il casoananke, ci porta qui e ci fa nascere sempre. En, 緣, il caso, ci porta via. Ma è proprio vero che, rasserenati da quell’ordine fragile, sempre in gioco, quel che all’atto bisogna possa venire e andarsene dal mondo? Precari come d’autunno le foglie sugli alberi, deve sempre ancora nascere chi ti ricorderà come suo padre e sua madre. Invero precari nella realtà totale nessuno va e viene, nessuno nasce e muore. In-en, 因緣, il caso della causa nel suo primo grande accadere, ichi dai ji, 一大事, si rivela nel e col mondo, ci tiene e con-tiene, in quell’eterno presente, nikon, 爾今, di cui scrisse il Maestro Dōgen1.

Sempre a caso suonava la campana dei campanili annunciando a tutti una nuova gravità. Ogni continuità sta nella separazione e nella perfetta istantaneità! Nella sala dello specchio, proprio poco prima di entrare in scena, l’attore del Nō, riflettendosi nell’altro, nel suo nuovo travestimento, diventa perfettamente la novità del suo personaggio.

Altro non c’è che il rendere grazie; e solo nell’esercizio continuo d’ogni giorno, s’esprime il rendere grazie e scorre la vera Via, shōdō, 正道; il senso del principio è nella vita dolce e quieta d’ogni giorno nell’oblio di sé, di noi dimentichi, recita uno dei paragrafi dello Shushōgi, 修証義2. Rendere grazie: cammino e tensione verso quella frazione e quello spezzamento che ci costituiscono, una o più parti che lasciano e continuano a lasciar presagire un tutto, una totalità. 

L’esercizio continuo d’ogni giorno, l’áskēsis, fluisce (soffia) incessante: ripetendosi si spoglia e nell’oblio di sé avverte il potere metamorfico della dimenticanza, di quell’accadere imprevisto e incondizionato. Nella cura del gesto è reso grazie alla Vera Via, shōdō, 正道. E la Grande Via, daidō, 大道, non conosce preferenze, è a proprio agio nelle piccole come nelle grandi cose, ci insegnano Le massime sulla fede nello spirito3 del Terzo Patriarca. Rendere grazie, una catena ininterrotta di consegne, di mandati, la cui forza risiede non tanto nella perfezione di ogni anello ma in quel continuo, impreciso e reciproco accostamento e sintonia che rinnova e rende nuova ogni cosa.

Nel distacco preciso e puntuale, ogni istante, comunicando inconsciamente, naturalmente, automaticamente col successivo e quello precedente in ogni direzione, si fa eterno e svuotato (kenotico). Belli e perfetti non sono i pittogrammi cinesi stampati, ma quando, calligrafia, i tratti che la compongono si fanno approssimazioni tese a correggere, equilibrare il tratto imperfetto che lo precede. Da ogni tratto, allora, sorge imperfetto il carattere della perfezione, quell’andare oltre, al di là dell’al di là, dove non v’ha inizio e fine. Nella sete del frammento, dello spezzamento ecco la sete dell’assoluta precedenza.

Ricomporre l’unità perduta. Verità della ri-composizione.
“Nulla è di troppo, niente manca”. 

Prende in esame la sua esistenza, chiedendosi se non aveva sbagliato tutto nella vita, e decide che gli errori, gli sbagli sono soltanto occasione di crescita. É determinata e appassionata e quando viene a conoscenza dell’arte Kintsugi (riparare con l’oro) non sa resistere. “Un oggetto rotto, che sembra da buttare, vale di più di un oggetto nuovo. Le cicatrici diventano così un sinonimo di ricchezza e non qualcosa di cui vergognarsi” (pag. 3).

Dapprima titubante e via via sempre più sicura spacca ciotole, vasi, lastre di marmo quasi a evocare inconsciamente il bisogno e la ricerca di valori simbolici nella propria vita. Come nell’antica Grecia era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto e darne una metà a un amico o a un ospite affinché fosse possibile, attraverso la conservazione delle due metà, che i discendenti si riconoscessero anche a distanza di generazioni, così Anita ripercorre quei gesti quasi a voler evocare una continuità nella discontinuità dei tempi.

Ma spaccare bene non è facile: richiede tecnica, delicatezza, decisione e soprattutto distacco. Nella perfezione del gesto scorre la vera via (la verità); nel distacco preciso e istantaneo, ogni istante comunicando inconsciamente, naturalmente, automaticamente col successivo e quello precedente, in ogni direzione, si fa eterno (vuoto di sé).

Il senso di meraviglia che percorre la pagina.

C’è un limite massimo alle bugie.

Tradire la “fede pubblica”.

Non c’è una linea retta, un tratto incompleto a cui segue un tratto che lo completa, incompleto a sua volta… Un arabesco quindi… Non linee rette che attraversano lo spazio per il cammino più breve, ma arabeschi che attraversano lo spazio-tempo.

Mostrarsi, farsi volto, esporsi fragili…

I “volti” della fragilità.

La fragilità ha molte espressioni, potremmo dire che ha molti volti. Essa racconta i nostri limiti, confina con le zone d’ombra della nostra vita, è conseguenza di qualcosa che manca, ma si insinua anche nei nostri pregi o positività, nel senso che il proporsi come gratuiti in un mondo che non sempre e non in modo ovvio accorda accoglienza e riconoscimento, espone ad essere in posizione di debolezza anche quando si vivono atteggiamenti di fiducia, di dono e di speranza nell’altro. Si può parlare di esposizione del volto alla mercé degli altri, in quanto soggetti all’accoglienza parziale, alla non comprensione, alla critica, all’invidia, fino all’indifferenza, alla calunnia ed al rifiuto, come scrive il filosofo Lévinas: La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia: anche nel volto c’è una povertà essenziale […] il volto è esposto, minacciato.

Alcune fragilità riguardano la persona in sé. La vita di ogni uomo è misurata dalla nascita e dalla morte. Siamo come il fiore del campo, esseri di tempo, non ci siamo dati la vita, non possiamo darci l’immortalità. Siamo esposti agli imprevisti, a cose che accadono e stravolgono la nostra esistenza, ci cambiano i progetti (Fragilità esistenziale). Siamo fragili a motivo di malattie, condizioni difficili di vita, di condizionamenti, che pesano sull’equilibrio della persona, labilità dell’amore. Siamo esposti a sbagliare, a peccare, a distruggere la vita anziché a promuoverla.

Il nostro stesso essere incompiuti ci rende fragili: “l’uomo non è mai nato né cresciuto del tutto, deve nascere continuamente, continuamente partorire se stesso, crearsi il proprio mondo, il proprio posto” in ogni tappa della vita (anche la terza e quarta età sono vita). Questa bellezza e fatica del nascere non è un percorso su strada rettilinea, incontra ostacoli, possibilità di sconfitta. In questo continuo nascere ogni età della vita, nei suoi passaggi, presenta fragilità tipiche, legate alle “crisi” di transito da una stagione all’altra dell’esistenza stessa e delle situazioni.

Siamo esposti alla fragilità spirituale, a motivo di deboli motivazioni di senso ( anche la questione del senso oggi perde di senso), di scelta, non tali da reggere impegni importanti e duraturi; siamo fragili davanti a Dio del quale ci sfugge il volto e la modalità di accesso. Nella fede conosciamo il dubbio, anche se il dubbio non indica sempre fragilità.

Alcune fragilità riguardano la vita collettiva- culturale -sociale, provocate da crisi di varia tipologia:

– Fragilità economica e politico – sociale dovuta all’instabilità, alla carenza di beni disponibili, legata alle condizioni di emarginazioni o a pregiudizi. Questo tipo di crisi oggi assorbe la quasi totalità dell’attenzione e rischia di lasciare in ombra crisi più profonde, che toccano dimensioni essenziali della nostra umanità

–  Fragilità della condizione attuale della religione in genere e del Cristianesimo in specie per cui c’è chi, paradossalmente, si domanda: siamo gli ultimi cristiani? Momento difficile, che stimola la ricerca e induce a riflettere con serietà anche sulla distinzione tra Cristianesimo e cristianità. Ossia tra ciò che costituisce il nucleo essenziale del Cristianesimo e le forme storiche in cui esso si è inculturato. Ci si domanda: Quale Cristianesimo sta morendo? Quale può e deve rinascere?

–  Fragilità della condizione attuale della Vita consacrata a causa della diminuzione numerica, dell’innalzamento dell’età media, dell’incalzare delle esigenze, cui spesso non si riesce più a rispondere, con la conseguenza del continuo doversi ritirare da attività e luoghi in cui tanto si è investito in relazioni e risorse di ogni genere. Anche a questo proposito, paradossalmente, ci si domanda: siamo gli ultimi religiosi? 

La fragilità che riguarda la vita religiosa risente della crisi generale, che coinvolge, in modi diversi, ogni parte del mondo, ogni strato della cultura. Siamo gli ultimi consacrati? Anche questa domanda, che sicuramente inquieta (come potrebbe non farlo?) spinge a cercare risposte, a ripensare la questione della vita consacrata, a distinguere ciò che in essa è irrinunciabile, intramontabile e ciò che, poiché legato a condizioni storico-geografiche e culturali, potrebbe tramontare, senza che la vita di consacrazione nella speciale sequela di Cristo muoia. Quale modalità o quali modalità di vita religiosa stanno morendo? Quali potranno nascere?

Secondo il teologo Bruno Secondin: Di fatto oggi abbiamo più domande che soluzioni. Dobbiamo passare attraverso la crisi dell’imperfezione, della provvisorietà, dell’incertezza e delle soluzioni parziali. Passare attraverso la crisi equivale ad evitare soluzioni affrettate, ritorni a forme basate soprattutto sulle “norme” oppure fughe in avanti non soppesate in un serio discernimento.



1 Dōgen Zenji (1200-1253): Fondatore insieme a Keizan Zenji (1268-1325) dell’Ordine Zen Sōtō.
2 Shushōgi, Dell’esercizio nel Risveglio, V sezione paragrafo 29 traduzione italiana a cura dell’autore, in Shushōgi testo e commenti, Quaderni Honshō Myōshu, Fudenji, 2016.
3 Shin Jin Mei, 信心銘 di Kanchi Sōsan (? – 606)