Con la pandemia, la globalizzazione è piombata prepotentemente nel soggiorno. Da una città lontana a me sconosciuta, ma abitata da 11 milioni di persone, un nuovo virus ha viaggiato fino a noi lungo le nervature dei viaggi degli umani. In pochi giorni da là è arrivato qua. Chi se lo sarebbe immaginato che l’anziano nel paesino del bresciano fosse collegato al negoziante di polli a Wuhan tramite una invisibile catena di sguardi e sputacchi involontari?
E poi ci siamo ritrovati chiusi in casa. Mi addolora pensare a quanti tra noi non hanno un rifugio sicuro nella propria casa, ma sono stati costretti a vivere in disarmonia solitudini o relazioni avvelenate. Mi auguro che queste ferite vengano curate.
Ma oggi scrivo della rivelazione che la clausura mi ha offerto. Io sono un uomo fortunato, abito in affitto in uno spazioso appartamento a Padova insieme a due coinquiline con cui si è costruito un rapporto di serena convivenza. Prima della pandemia, la mia professione e le mie passioni mi facevano stare in continuo movimento. Uscivo di casa al mattino e tornavo la sera tardi, e raramente riuscivo a rimanere a Padova nel fine settimana. La casa era il perno fisso di una giostra in continuo movimento, utile più come deposito degli attrezzi che come dimora.
Tutto è cambiato l’otto di marzo: le mie attività si sono raccolte tra le mure domestiche e fin da subito mi sono trovato in una condizione per me nuovissima. Da nomade sono diventato stanziale. L’ordine e la pulizia sono diventati essenziali per poter vivere in armonia dentro a uno spazio limitato. Non importa più essere capaci di improvvisare nei disguidi del ramingo (un treno in ritardo, una coincidenza persa, un albergo sconosciuto, un aeroporto poco familiare), ma ho dovuto imparare a ripetere uguali le azioni del quotidiano (cucinare, pulire, tenere in ordine).
Gli oggetti si sono lasciati guardare nelle diverse ore della giornata, e così ho scoperto la routine silenziosa delle ombre. Al panorama sfuggente ammirato dal finestrino di un Freccia Rossa si è sostituito il panorama lento della strada sotto casa. Vicini che chiacchierano a voce alta alla finestra, rumore di tacchi dal piano di sopra, giochi chiassosi dei bambini del piano di sotto, l’anziano che cura l’aiuola del palazzo di fronte, la signora che pianta i fiori nel vaso, il pescatore che raddrizza le canne. A stare qua ogni giorno, questa casa è diventata la mia casa, “mia” nel senso di at.oow, una parola degli indigeni dell’Alaska:
“Tradotta alla lettera, la parola at.oow significa ‘cose possedute’, e può essere riferita sia a oggetti materiali e concreti, quali maschere, sonagli, elmi, o pannelli di legno scolpito usati per raccontare le storie, sia a fonti di approvvigionamento come torrenti popolati da salmoni o zone ricche di bacche mangerecce. Il concetto però diventa piuttosto confuso per chiunque abbia familiarità con le leggi sulla proprietà privata vigenti nelle nostre società moderne, in quanto non distingue tra il possesso del bene (che implica il potere di negare l’uso del bene stesso ad altri e il diritto di disporne a proprio piacimento) e l’obbligo di una gestione legata alla comune utilità: il singolo può dichiarare at.oow un oggetto o un luogo, ma tale possesso deve giovare alla tribù e non necessariamente alla persona che ne rivendica la proprietà. Gli elementi fondamentali di una cultura, come le fonti di sussistenza e il patrimonio dei canti, non sono beni personali, ma ciò nonostante vengono considerati proprietà privata.”[“L’orso Azzurro”, Lynn Schooler, Ugo Guanda Editore, p. 199]
Viaggiando in paesi stranieri, cerco la bellezza nella novità. Rimanendo qua, ho scoperto la bellezza delle piccole cose che rivelano una attenta cura, lavoro di mani non viste. Sporgendomi dal davanzale ho scorto le piante fiorite della famiglia di sotto, le ho confrontate con i miei vasi spogli e mi sono impegnato a fare dei bei fiori anche qui al terzo piano.
Mi preoccupa molto la situazione mondiale, indago i problemi dell’umanità e mi chiedo quali possano essere le soluzioni. Forse, si potrebbe cominciare fermandosi a guardare il proprio giardino. Forse, abbiamo avuto l’occasione di fermarci a guardare il nostro giardino. Forse, prendendoci cura dell’angolo di mondo che ci è stato assegnato dal caso, potremo lenire le profonde ferite che abbiamo inferto alla natura.