Zen Notiziario – Vol. 12, n. 3-4; autunno-inverno 2005
La nostra è la via che turba, ma che non disturba
Tre colpi di campana segnano l’inizio dello Zazen, ma quelli che avete sentito erano in realtà sei suoni, anzi sei rumori: per tre volte due – l’urto del martello contro la parete sottile della campana e poi la campana. Chi vibra il colpo deve diventare il martello, deve diventare il metallo della campana, deve diventare il suono – il suono che prende origine inspiegabilmente dal vuoto.
La campana suona perché è vuota, ha voce perché è vuota. Ognuno ha voce perché vuoto. Più è vuoto, più risuona, anche se il suono non ha niente a che vedere col più o il meno, il crescere o il diminuire. Quindi il piccolo martello, quando tocca il sottile bordo della piccola campana, tutt’uno con la campana, l’invita al suono. A questo punto nel suono non c’è rumore, il suono risuona, ha una sua voce, mille voci.
Questa è una metafora per parlarvi della voce. Il solo-zazen – shikantaza – è appunto questa voce, questo suono, e non l’indelicatezza di chi, sedendomi vicino, mentre annota queste parole, non si cura dello stile del voltare le pagine in questo immenso silenzio. Ogni rumore, in realtà, nel silenzio diviene continuamente voce, è il suono di una mano sola. Procuriamo fastidio e ci infastidiamo per il nostro essere divisi, che raramente è in-dividuato, non-due. Nel solo-zazen quindi, ritornando al silenzio, uniamo la mano sinistra e la mano destra, incrociamo la gamba sinistra e la gamba destra perché i due diventino uno e quest’uno, indiviso, non sia solo uno.
A volte siamo colpiti, sorpresi dalla voce della natura, dal suo canto. A volte impauriti, terrorizzati. urto, di un disturbo. La natura parla sempre con una voce sola, una voce che ci abita. Quando siamo vicini ad un vulcano che esplode, erutta, lo spettacolo è insieme affascinante e terribile. Di questo fascinoso e terrifico si dice che è numinoso. Nel cuore di ognuno di noi c’è questa qualità numinosa.
Così, chi siede immobile, con-centrato nel silenzio, visto, incute rispetto e affascina. E chi siede si sente bene perché seduto, composto, perché è voce e suono, voce che risuona. Non è più come il martelletto che urta inaccuratamente la campana e che fa seguire una specie di suono che si libera faticosamente. In realtà il tocco è il tatto di un contatto e non di un urto, di un disturbo.
C’è una zona in cui i contorni si dissolvono. Il colpo, perché fa campana suoni, e il colpo del suo ritrarsi. L’andare, il ritornare sono contenuti in ogni gesto. Così ogni gesto è bello, pieno, soddisfacente. In quel momento. Dopo è perso. Subito, un altro. Aprite i gesti: tutto risponde, si espande, si dilata. Come per le mani giunte in segno di saluto e comunione. Un punto da più prospettive. Non tanto la riduzione del molteplice tutto all’uno, quanto nell’uno la coesistenza, il coesistere di tutto il molteplice. I piedi sono tali quando combaciano con la terra, quando baciano la terra. Il piacere di toccare, di posare i piedi ricalcando le proprietà della terra. Come per le dita che si abbandonano stringendosi intorno ad una coppa, un bicchiere, na tazza… La percezione non può ridursi ad essere critica: è tempo stesso e prima di tut erotica, plastica, profonda mate cognitiva. Così l’approccio prescrittivo è quasi certamente più estetico di qualsiasi approccio critico e denotativo; ed il critico è qua Si sempre infelice quando ri nuncia alla voce, alla parola che risuona, che moltiplica e che si priva dell’interesse del conflitto.
Invitando la campana a suonare, a riverberare la sua voce, tutto il nostro corpo diventerà quella campana, quell’elasticità, quel cavo e quel pieno. Ecco la giusta tensione dello Zazen, la voce di una sola mano. Gentili con noi stessi, invitiamo la campana a suonare rispondendo a un invito.
Ci invitiamo, invitati.
“Confuso lo stupido pensa di viso il pugno dal dito e poi il dito con la luna confonde” (Shōdōka, Yoka Daishi 665-713). Le dita delle nostre mani raccolgono ed indicano ed hanno insieme una qualità tutta umana e celeste. Possiamo toccare davvero il cielo con un dito, senza bisogno di puntarlo in alto, né di grattare il cielo (grattacieli). Pollici ben distesi. Dita distese.
Benché sovrapposte, le dita della mano sinistra e quelle della mano destra è come se fossero prolungamento le une delle altre. Come i pollici. Molto delicatamente e precisamente, con la stessa tensione di quando si tiene una cosa molto delicata, che non si può stringere troppo né lasciar cadere. Quest’attiva tensione, quando è inconscia e normalmente percepita, riverbera in tutto il corpo in quanto soglia e zona in cui i contorni si dissolvono senza nozione d’interno ed esterno, di prima e dopo, di vicino o lontano, simultaneamente in ogni punto e in tutti i punti dell’universo dei tre tempi e delle dieci regioni.