Zenite – Vol. 27, n. 2; estate 2020
Vivendo viaggiamo o per mari o per cieli e inferni. In questi mesi, in cui ho avuto tempo per ripensare agli amici, raggruppavo quelli di sud in tre dimore. In una accadeva la musica, suonavamo di sera, quando sembrava che tra tanti disinganni, un accordo, benché arduo, fosse l’unica verità. Nella seconda, intorno a mio padre, teatro e figure. Nascevano statue, fondali, e quell’inventare sopra la realtà altre scene, mi pareva magico. Nella terza: poesia. Lì il grande amato e il grande pazzo per la vita, il grande visionario e il grande poeta, faceva sembrare semplice il salto più mortale sicché, in una casa dipinta e diroccata, vivevamo qualcosa che oggi chiamo "spirituale" e che allora – quanto ingenuamente – credevo consueto.
A volte mi pare di risentirne l’ardore come un pilastro indistruttibile. Nemmeno la morte ha potuto scalfirlo e quando quelle care case le occupavano estranei e sembrava perduto il ricordo di tanti sforzi, avrei risposto anch’io ai ciclopi che mi chiedevano il nome: "Nessuno". Tornavo da una guerra e non c’era più chi doveva aspettarmi. A nord non capivo chi vantava libertà in grazia di una solitudine. La libertà più profonda l’ho provata in quei vincoli, lì nessuna caduta feriva e anzi, sembrava finta per poter essere subito, da un abbraccio, consolati. Senza questo ero niente, "Nessuno".
Nella selva oscura si agitano forze cieche. Tutta l’ottusità e l’arroganza, tutto il qualunquismo e l’aridità, tutta questa grande malattia... eppure bastava un poeta a illuminare l’inferno, perciò è una commedia ed è divina, un poeta passa, ascolta il racconto inudibile dei dannati e chi rimpiange il re dell’Universo, non s’accorge di quanto redima la pietà quando è umana e viene versata così, come un riscatto, sopra lo sfacelo...
Dall’altrui scale e dell’amarezza di salirle giacché la sua città è distrutta, un poeta scrive: "Salvi tutti" e in più da sempre previsti nell’amor che move il sole e l’altre stelle... Per anni non ne abbiamo parlato, tranne una sera. Se, come gli antichi, avessi avuto lungimiranza, avrei tenuto con me quelle ampolline di vetro sottilissimo in cui si raccoglievano le lacrime e conservato le nostre come sostanza spirituale insieme ai libri che rileggerò tutta la vita.
La quarta dimora era a nord. Vi si praticava meditazione. L’ho fatto senza una regola, senza costanza e tuttavia questa forza è diventata un mare parallelo all’inquietudine. In esilio ho potuto scrivere e, benché così in ritardo, un poco capire, un poco perdonarmi. Fausto stava dall’altra parte del filo. Per più di vent’anni si sono intrecciati dialoghi, visioni, il nord e il sud, tutti gli antipodi. Insieme: pace e guerra.
Quando penso a questa tessitura, la Vita mi sembra benedetta, non ci ha solo sfamato, ha versato su di noi tutta questa bellezza, sottigliezza, come certi alberi le cui foglie riflettono il sole, in mille monete di luce. Perciò, quando mi stringono le "fere", io scendo dentro quella patria immateriale, ritrovo orchestre e fondali, versi e silenzio, lo percorro come un’orfana e come una figlia molto amata, posso camminarci con passi imperiali o in catene, persino disperarmi di naufragi e disfatte, ma cosa importa? Gli antichi dividevano in due un anello e chi partiva ne portava via metà, sapendo che certi intrecci sono invincibili… Certe sere, apro quello scrigno e li infilo alle dita. I loro simboli splendono come diamanti...