Una scuola

Zenite – Vol. 18, n. 3; estate 2011

Il convento dove ho fatto le elementari era del ‘400 e molto bello, col portale scolpito, i cortili interni ombreggiati da palme, un intervallo di finestre ad arco. Nell’infanzia tutto sembra maestoso, in seguito quella solennità mi è parsa più disarmata, più fragile, più evidenti le offese dei secoli. Bambini, già si facevano distinzioni di ceto, poiché si iscrivevano lì o i figli di quanti, lavorando fino a tardi, usufruivano della mensa e delle lezioni pomeridiane, o i rampolli della borghesia nolana, intoccabili per ricchezza raggiunta e a cui dava lustro una scuola gestita da religiose per il maggior rigore che vi si esercitava.

(Sulle origini poi di questa ricchezza, congetture se ne facevano, che era tutto uno stuolo di avvocati e notai e di chi e per chi lavorassero non era difficile intuire).

Io passavo le ricreazioni con Ersilia, figlia di pasticcieri, mestiere questo sgradito ai nuovi nobili, ma ai miei occhi, per quelle predilezioni assolute che si vivono nell’infanzia, dotata di ogni bellezza: dalle trecce scure, ad una certa indistruttibile bontà d’animo. E ricordo una mattina in cui le arriva alle spalle uno spintone da tale Matilde e continua l’attacco alla schiena senza motivo, ogni volta Ersilia raccogliendo e rimettendo insieme, con un sentimento che non avrei saputo allora nominare ed era di pazienza, dignità… il dolce che stava mangiando e s’era ormai sporcato.

E poiché l’aggressione nemmeno si ferma, mi giro e colpisco io la persecutrice.

La maestra, Suor Anna, non so quanto avesse visto della scena, di sicuro l’ultima parte, giacché s’avvicina col passo suo deciso che amavo, mi fulmina con un’occhiata e intanto aiuta una Matilde molto piangente a rialzarsi.

Il dispiacere d’averle fatto male si spegne appena lei comincia a fornire una versione poco veritiera dei fatti; io per rabbia nemmeno smentisco e anzi incrocio le braccia. Uno schiaffo della mia maestra me le scioglie subito, mi manda in punizione e colgo – tutto molto rapidamente avviene – sul suo volto un’amarezza, d’aver avuto lei di me un’idea più alta che in quel momento ho deluso e questo, oltre al vedere Ersilia che si dispera e continua a mandarmi da lontano, in alfabeto muto, messaggi molto teneri e affranti, è il castigo più penoso.

In classe stiamo in piedi, ai lati della cattedra, in un silenzio di piombo: 

“È tempo per te di capire cosa difendi e cosa offendi. In entrambi i casi, le braccia non si incrociano!”. Suor Anna fissandomi negli occhi con quel suo sguardo di precisione con cui pesava persone e fatti.

A Matilde disse solo: “Sei sospesa per tre giorni” e nessuna delle minacce di una famiglia abbastanza potente da crearle dei fastidi riuscì a revocarne la decisione.

Niente teorie, pedagogie… bastava, a darci senso di vergogna, la forza morale: era il metro, l’altezza… ogni meno sembrava disonore. Ho ripensato in seguito a quella zuffa di bambine come a una profezia... la guerra civile che a sud nessuno ha chiamato così ma che questo è stata… le devastazioni, il raccogliere e rimettere insieme, certi pianti soffocati in silenzio, in silenzio, perché non si udissero...

Ci ho ripensato, consapevole di aver molte altre volte sbagliato quella distinzione così cruciale tra difesa e offesa che mi fu spiegata con tanta generosità a otto anni, e di aver molte altre volte incrociato le braccia...