Monologo di un’anima di Irene Veronelli
“Il mare si richiuse sopra di noi e io affogavo. L’acqua salata mi inaspriva la mente senile, oasi nel deserto arido dell’anima. Sulla lingua gonfia le mie ultime grida si mescolavano al sangue, in uno strano sapore metallico. Sprofondavo nelle tenebre più selvagge che mai avessi assaggiato. Le membra stanche, il fiato baciato da un alito di morte, sentivo il mare scrivere e cantare rime sul mio spirare, come stesse firmando un contratto con la spietata Atropo. Ricordi, frammenti ritornano alla mente come la consapevolezza della distrazione.
Frammenti di pensieri che si mescolano alla sabbia quando c’è burrasca, ricordi di una pioggia fresca che pulisce le orbite dal veleno. Chiudo gli occhi e mi lascio andare al vuoto. Al bellissimo oblio della mente umana, in un eterno e dolce riposo sui fondali dell’Andalusia, con la mente che ancora divaga su quella goccia di sudore tra i seni della terra; pudica, vergine delle bramose mani dell’uomo, intoccata oltre le colonne marmoree dell’equilibrio morale. Religiosi silenzi.
Ricordo ancora la mia vita, schegge immortali di ombre passate; mi perseguita nello straziante dolore che avvolge il mio corpo in un abbraccio di fuoco. Ricerca i miei sensi di colpa da fomentare, ricerca l’animo umano che, forse, dopo tanto tempo, si è assopito in un sonno eterno; tra i cunicoli labirintici più stretti, giù, sempre più giù, nascosto dalla luce del sole, a marcire con i sogni nel cassetto e a ballare con gli scheletri nell’armadio. Bella cosa, la morte, ti accalappia. Quando meno te lo aspetti lei è lì, che ti guarda smaniosa e ti avvolge dolce, nell’effimera speranza che colorisce il viso ai vivi: la vita. Che poi, cos’è la vita? Bellissima e nuda bugia. Amore allo stato puro. Tirannia dell’irrazionalità, veleno erotico della nostra anima. L’ossigeno, droga inebriante; l’acqua, ambrosia. La vita è vestigia del tempo, irreale, goliardica libidine, detrito della perpetua ascesa del sole e dello spirare dei venti; vita è malattia e guarigione, febbre febbrile di smaniose inibizioni.
Ancora ricordi: il rostro delle barche, lidi barbari, porti persi ad arte sulle rocce carsiche, l’aria persa che annodava lo spazio e il tempo fino a ridurli a un cartoccio di colori. Ultimavo l’organizzazione delle idee, sfuggivo da desideri sessuali per la bella e stregata Circe ma ‘né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto’. Gli occhi immersi fra i miei sensi che hanno sempre sete, affogati nelle tenebre la notte, sottocoperta a contare gli anni a lume di quel tristo stoppino che tanto mi somigliava: solo, l’immensità del vuoto oscuro lo circonda, lui stesso, unica luce. Socrate disse: io so di non sapere; io dico: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’.
Conoscenza: inesauribile fonte di passione e inquietudine, pioggia di vetri sulle nostre sagome in posa; ci scalfisce silenziosa, frantumandosi: come quando insegui una nuvola, nel momento in cui la afferri un alito gelido ti bacia la pelle e quella scivola via, come fumo, tra le dita, avvolgendoti in una foschia lattea in miriadi di scaglie, troppo piccole per essere assaporate nella pienezza. Così la conoscenza è, come la definirebbero gli scienziati: the most unknown. L’ho inseguita per i mari, fra i mondi immersi, baciato dal sole e perso nella nostalgia di casa, minuscola effige stagliata contro l’ira di Poseidone, la voce smarrita nei meandri dello stomaco, avvinghiata dalle corde vocali.
L’ottava bolgia forgia fiamme, dentro ogni fuoco c’è lo spirito di un peccatore, grida stanche di dolore di chi cercava nuovi mondi in acque senza nome. Lingue parlano, gridano, sussurrano strazianti, e con lo sguardo cercano tregua e perdóno per essere stati umani. Perché in fondo cosa siamo se non schiavi di un corpo, di una mente. Il peccato ci punge, ci molesta l’ingegno, la noia prende il sopravvento e sbrana il folle volo della fantasia. Accelera il battito al torcersi delle corde vocali; sussurro sulla pelle. Sotto la pioggia salata la cera si sgretola; volto delicato. Pulisce la guancia dalla razionalità, sporcandola di amore: una carezza. Il mondo è un insieme di discrepanze, di screziature e sfumature impercettibili; l’uomo, una statua.
Fungiamo da specchio del mondo, ma manchiamo di noi stessi; smarriti nel viaggio per l’omologazione, cuciamo il sensibile al sensuale nella miscela di illusioni che giocano a nascondino con le farfalle nello stomaco. Cosa ci guadagniamo a essere tutti uguali? Se non la mancanza stessa della tanto agognata libertà, allora cosa? Vede, io sono solo un’anima, sono posta nella prima cantica della Divina Commedia da un uomo dall’alto ingegno, ma non mi sento di appartenere davvero a questo posto. Perché siamo statue, e come tali, il tempo ha ingiallito il marmo con ditate unte, le burrasche ci hanno privato di quella armonia incantata. Brandelli del nostro animo si sono dispersi languidi tra cielo e mare, tornando sempre sulle nostre rive, incessantemente, a ripetizione, in modo quasi ossessivo. Ma è forse ossessiva l’onda che raggiunge quella precedente per gettarsi sullo stesso lido?
Cosa siamo noi? No davvero, ci pensi bene. Può sembrare la solita domanda esistenzal-filosofica, ma ci ha mai pensato esattamente a cosa sono io? Io non dovrei essere qui, non lo merito. Io merito di essere nel mio mondo, tra le anime dei pagani, nell’Ade. Merito di essere tra le braccia della mia bella Penelope, con le orecchie intasate dagli ultimi abbai melanconici; la fedeltà premia l’attesa dentro gli occhi d’Argo. Con che criterio hanno giudicato me, eroe multiforme, elargitore di inganni, saggio marinaio, anima possente della tracotanza di Eolo, vento della lussuria che mi ha portato fino a scoprire la carenza di follia nell’uomo, oltre l’ira della decima fatica. Nell’oceano sotto Cadice ho trovato Eurizia, riflesso del Ponto Eusino. Calpe e Abila. Ho visto la statua, la chiave: “Non plus ultra” e ho voltato loro le spalle, gridando allo Zeus adirato, puntando al Tartesso. Ho sfidato Poseidone, Zeus e Ade, uscendo vivo dalla tempesta della vita. E cosa ho visto? Che cosa difendiamo con la nostra stessa vita? Il nulla, l’assenza del tempo, dello spazio, dell’entità umana.
Ho viaggiato il mondo intero in una brocca per pesci rossi, per arrivare alla conclusione che lo scibile umano non è altro che l’effimera lotta per sopravvivere in un mondo selvaggio. Siamo screziature negli occhi del mondo, e non siamo la capacità di omologarci che cerchiamo di acquisire, siamo la diversità, l’incapacità di essere uguali, la nostalgia di guardare il sole e la necessità di respirare sott’acqua. Ognuno di noi ha la pretesa di sapere che cosa ne sarà dell’embrione in noi una volta spirato, eppure che cosa ci da la certezza che ci sia qualcosa. Beh ci sono molte congetture: un’altra vita, la vita eterna, la semplice terra umida a mangiare il legno e il corpo vuoto. Forse siamo solo pedoni in una scacchiera, forse siamo solo pezzi di un puzzle.
Chi mai avrà il potere di tornare tra noi vivi a raccontarci cosa ci aspetta dopo, quali meraviglie o orrori sono riservati al nostro essere? Parliamoci chiaro: io non ho mai potuto neanche avere la pretesa di credere all’esistenza di questo posto, la gioia della fede o il pianto della redenzione. La paura della morte, inebriante respiro di mare, broccato nero sulla testa e la vastità del mondo che mi si schiude davanti. La mia nave non avrebbe potuto reggere l’ira di Atlante, vendetta patricida. Il cavallo impennava e muri d’acqua mangiavano le vele nel tentativo insano di impedirmi la visuale della ricca potenza navale. Ebbi paura. Paura nello sguardo dei compagni fedeli che non avevano abbandonato la giusta causa, invitati al suicidio da parole volatili.
Πάθει μάθος, ha insegnato nelle tragedie Eschilo: si impara soffrendo e io, posto qui per il peccato della superbia intellettuale di cui il mio stesso Autore ha abusato, finendo per smarrirsi; per il finale di una storia che non conosco, ho imparato dando la vita. Dal dolore, la coscienza, la saggezza, la parte scura della luna. Per questo “Io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza… giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza… in realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos’è meglio?”. (F. Dostoevskij)
Quanto darei perché il libro che contiene la verità su dove mi trovo fosse stato bruciato, a simboleggiare che nessuno sa davvero che cosa ci sia dopo, oltre, prima, eternamente mai. Siamo impazienti spettatori di una vita che non ci appartiene, ansiosi di vedere come finisce. Per me, c’è l’assenza di giudizio, la tirannia dell’irrazionalità, vuoto cosmico: imprime nei nostri cuori il Memento mori, la consapevolezza della caducità della vita, dell’unica triste verità che fa all’uomo razionalista da àncora ai flussi continui della volubile Vita: la Morte. E avrei voluto che il mio corpo fosse ricordato per esser perso nell’inadeguatezza della luce, nella tenebra sottile che ci divide dal regno dei morti, da tabù che ci chinano la testa sotto il peso dell’ignoranza. Ricordato per essere nell’oblio”.
E qui l’anima si fermò, il volto rubato dalla consapevolezza della tristezza, intarsiato con ragnatele di saggezza intorno agli occhi stanchi; alle labbra, specchio del peccato, tirate in un sorriso mesto. “Orsù, io devo continuare la mia pena, bruciare nella lingua di fuoco che ha ordito piani astuti a scapito altrui. Cari lettori, buon proseguimento”. Così disse e non parlò oltre, ci diete le spalle e chiuse il sipario.